giovedì 2 maggio 2013

La pelle che abito

La pelle che abito di P. Almodóvar, col, 117', Spagna, 2011



Elogio della superficie, del colore, della forma autonoma dall’assenza, della follia dell’occhio che vuole solo guardare per guardarsi senza riflettere, per focalizzare la dimensione di un abitare ormai (o forse da sempre?) privo di vie di fuga, artificiale, sì, ma non per questo meno vero di quello autentico immerso nel flusso del tempo senza montaggio.
La storia che racconta Almodóvar mi lascia perplessa: mi sembra interessante, ma mi delude; mi piace quello che vedo: immagini che mi proiettano in quel cinema fatto di cura per l’estetica della comunicazione visiva; rapide sequenze che diventano contenitori di altre cose che amo e mi fanno sentire a casa (opere d’arte familiari, il bianco e nero che mi proietta nella dimensione corporea e poetica del cinema muto o di quello che vuole citarlo; la scrittura sul muro che mi ricorda le pagine dei libri o gli appunti ornati da disegni riflessivi che si fanno quando si ascolta sognando), ma il racconto mi respinge, a tratti mi sembra banale, scontato, prevedibile. E poi alcune immagini sembrano volersi prendere di gioco di me, ricucendomi addosso, attraverso la pubblicità en passant di noti prodotti in commercio, la quotidiana veste da consumatrice, che guarda in tv gli spot di trucchi o motociclette, mentre quello che cerco, quando guardo un film, è riconoscermi solo come consumatrice interna, come divoratrice di fotogrammi e di storie che emozionano e fanno pensare o ricordare, di musiche qualche volta, quando l’intento della regia non è quello di ventriloquizzare ciò che vedo, ma di renderlo dissonante, di creare strade parallele.


Ci sono sequenze del film che ripropongono troppi topoi già noti alle cinematografie mischiate dei melodrammi, dei thriller, dei noir: lo scienziato folle frankensteiniano, che nel suo laboratorio clinico, sfida il tempo e la forma, il desiderio e la solitudine, il senso del necessario e i limiti della vendetta; la casa perfetta semivuota e immensa, arredata ipertecnologicamente e controllabile da ogni punto con telecomandi e schermi che decidono del visibile e delle soglie tra la conoscenza e l’immaginazione; stanze come carceri e sotterranei che nascondono corpi in catene assetati e affamati di luce; giardini del peccato e letti di scena in cui si consumano violenze e perversioni drogate di sostanze illecite e psicofarmaci; fughe e roghi; suicidi che legano il destino delle figlie a quello delle madri; madri che partoriscono uomini mossi dalla violenza della follia, che non si riconoscono come fratelli e per questo si uccidono, gelosi e traditi dalla sete di potere o dalla cecità che priva di legami e memoria.
La pelle che abito è un volo rasoterra, che alza vento e polvere, riempiendo gli occhi di granelli fastidiosi e sostituendo al tempo dell’inabissamento e del sentire, quello dell’intrattenimento egocentrico, dell’autocitazione di maniera, dell’esercizio di stile che ha bisogno del supporto del racconto da tradire – Tarantola di Thierry Jonquet – per provare a dire qualcosa a chi guarda.
Concordo con chi ha ipotizzato che la pelle a cui si fa riferimento nel titolo potrebbe essere in realtà lo stesso cinema del regista: Il cinema che abito sarebbe quindi il titolo ombra rimasto nel cassetto di Almodóvar. Questa pelle-cinema, volendo considerarne allora le caratteristiche che emergono dal film, seppur bella e morbida, sarebbe pur sempre un prodotto artificiale, creato in laboratorio in prospettiva eugenetica: più dura e resistente della pelle naturale alle punture del mondo, ma anche meno sensibile e narrativa. Pelle-barriera, pelle apotropaica, ma anche pelle-memoria, in cui è sintetizzato un dolore che non deve e non può trovare voce e per questo prova a cambiare forma. D’altra parte Robert, deus ex machina del film, è un chirurgo estetico ed ha a che fare da sempre con storie di pelli, o forse sarebbe meglio dire con pelli piene di storie, rifiutate da donne in lotta con il tempo e con la propria identità. E poi, anche lui ha vissuto la sua parte di dolore, anche lui si è sentito una pelle vecchia da buttar via, abbandonato, rifiutato dalla moglie, che lo tradisce e prova a fuggire con un altro! Gal, la moglie di Robert, fugge per “cambiar pelle”, come pure si dice per parlare di trasformazioni, ma la pelle finirà per rimettercela, bruciata nel rogo dell’auto con cui aveva tentato la fuga. La pelle, attenzione!, non la vita. Gal non muore tra le fiamme, ma più crudelmente qualche mese più tardi, quando è ormai fuori pericolo di vita grazie alle amorevoli cure coniugali. Accadrà che la donna, dopo essersi imbattuta senza volerlo nella sua immagine postumana riflessa in un vetro, terrorizzata, si getterà dalla finestra della sua stanza da letto, cadendo, irriconoscibile, quasi in grembo alla figlia, sirena il cui canto aveva innescato il percorso di riconoscimento della madre, finito in tragedia. Inutile dire cha Norma, la figlia di Gal e Robert, morirà qualche anno più tardi allo stesso modo della madre e che Robert inizierà la sua ricerca transgenetica sulla pelle proprio nel tentativo, incubando il suo dolore, di trasformarlo in unguento curativo di altri dolori, anche del suo, non più solo marito rimasto vedovo di un amore traditore, ma anche padre testimone della violenza che un altro uomo, Vincente, farà alla figlia in un giorno di festa, che, neanche a dirlo, è un ricevimento di un matrimonio. Norma si ucciderà in conseguenza alla violenza subita. Robert userà il suo sapere per punire lo stupratore e trasformerà Vincente in Vera.
Vincente, commesso nel negozio di vestiti della madre, verrà trasformato in donna. Robert lo/la terrà a battesimo e deciderà di chiamarlo/a Vera. Il nome scelto per la nuova identità del transgender suo malgrado non poteva essere più ironico e punitivo: hai abusato di una donna, ti privo del tuo sesso violentatore e ti trasformo in una donna. Per farti sentire cosa può provare una donna in un corpo violentato (dalla chirurgia, dal sesso, dai travestimenti di tacchi alti e trucco)? Per punirti trasformandoti in donna? A queste domande non c’è risposta. L’ambiguità è accresciuta dal desiderio che Robert inizierà a provare ad un certo punto per la sua creatura, che d’altra parte gli chiederà supplicandolo una “convivenza tra pari”, e ancor di più dalla relazione che Vincente ingaggerà col suo corpo di donna: V à V (si legge V to V) sembra non sentire affatto il corpo il cui si ritrova senza volerlo; quel corpo, nel quale dovrà imparare ad abitare suo malgrado, Vera decide di utilizzarlo come un’ arma per punire il suo carceriere e per tentare la fuga e il ritorno ad una identità, quella di Vincente, che non aveva mai pensato di rinnegare. In questo c’è tutta la distanza da un altro film discusso durante il cineforum, Boys don’t cry, in cui il percorso di identificazione con il genere a cui si sente di appartenere è il frutto di una decisione consapevole, o meglio di un’urgenza di verità. Boys don’t cry, d’altra parte, è una storia vera. Questa affermazione è da leggersi con tutte le sfaccettature del caso.
Nel film di Almodóvar, la questione dell’identità, è posta come lotta alla violenza identificatoria dell’altro: nonostante il corpo che tu, folle creatore, hai voluto cucirmi addosso, continuo ad essere Vincente, sarto dell’atelier di mia madre e da mia madre ritorno, perché lei, riconoscendomi, farà rivivere ciò che sono sempre stato, riuscendo a vedere oltre ciò che sono diventato. Certo, un modo per far avvenire il riconoscimento di un figlio dato per disperso, forse morto, dovrò pur inventarlo, anche per lei, la donna che mi ha messo al mondo, perché lo sguardo, anche lo sguardo della madre, ha bisogno di segni, possibilmente visibili, che riattivino il percorso del sentire che porta all’amore e facciano in modo che la madre rediviva sia creduta, quando annuncerà agli altri il mio ritorno. Sì, indosserò un abito che conosce, un abito vecchio del suo atelier, che avevo portato via prima della scomparsa e che è rimasto da qualche parte, nascosto in qualche fotogramma, non importa dove; proverò a convincere i suoi occhi prima che il suo cuore; il mio racconto potrebbe non bastare a rendermi l’identità e il passato. D’altra parte la pelle non è forse solo un abito colorato, una decorazione? La pelle che nasce con me, ad un certo punto è destinata al tradimento. Come il mio corpo. Quando la mia estetica non corrisponderà più al mio sentire, corpo e pelle, inizieranno a raccontare di me ciò che la mia mente non accetta (la vecchiaia, il mio sesso, la mia malattia) e allora sarà necessaria la cesura tra modi di sentire che evidentemente non coincidono: quello di fuori e quello di dentro, quello della forma e quello dell’essenza. Se la divergenza è anticipata dall’intervento di un folle, come quello di Robert che opera Vincente, il silenzio del corpo e della pelle inizieranno prima del tempo, questo è tutto. L’identità “Vera”, ma potrei dire lo spirito, l’anima, l’essenza è tutt’altro da ciò che racconta una carta d’identità. L’identità è un processo di identificazione che trova strade diverse da quelle tracciate dalla norma. La Norma uccide (e si uccide) perché non da scampo a stessa. La vita è nel gioco doloroso tra corpo-pelle e storia della propria identità. Anche il volto rientra nel turbinio di ambiguità che Almodóvar mette in scena: “il volto è la nostra identità”, fa dire a Robert in una delle prime battute del film. Quale volto? devo chiedermi per mettermi in gioco. Il chirurgo estetico mi parla di un volto restituito ad un corpo dall’artificio umano, di un volto recuperato dopo un incidente, che potrebbe consentirmi di nascere a nuova vita, di un volto simbolo di un’identità creata, frutto comunque di un sentire che può avere più o meno le tonalità della paura o del coraggio, ma che è pur sempre un sentire. Si tratta, in definitiva, solo di imparare ad abitare.

Giovanna Callegari


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