Elogio della
superficie, del colore, della forma autonoma dall’assenza, della follia
dell’occhio che vuole solo guardare per guardarsi senza riflettere, per focalizzare
la dimensione di un abitare ormai (o forse da sempre?) privo di vie di fuga, artificiale,
sì, ma non per questo meno vero di quello autentico immerso nel flusso del
tempo senza montaggio.
La storia che racconta
Almodóvar mi lascia perplessa: mi sembra interessante, ma mi delude; mi piace
quello che vedo: immagini che mi proiettano in quel cinema fatto di cura per
l’estetica della comunicazione visiva; rapide sequenze che diventano
contenitori di altre cose che amo e mi fanno sentire a casa (opere d’arte
familiari, il bianco e nero che mi proietta nella dimensione corporea e poetica
del cinema muto o di quello che vuole citarlo; la scrittura sul muro che mi
ricorda le pagine dei libri o gli appunti ornati da disegni riflessivi che si fanno
quando si ascolta sognando), ma il racconto mi respinge, a tratti mi sembra
banale, scontato, prevedibile. E poi alcune immagini sembrano volersi prendere
di gioco di me, ricucendomi addosso, attraverso la pubblicità en passant di noti prodotti in
commercio, la quotidiana veste da consumatrice, che guarda in tv gli spot di
trucchi o motociclette, mentre quello che cerco, quando guardo un film, è riconoscermi
solo come consumatrice interna, come divoratrice di fotogrammi e di storie che
emozionano e fanno pensare o ricordare, di musiche qualche volta, quando
l’intento della regia non è quello di ventriloquizzare ciò che vedo, ma di
renderlo dissonante, di creare strade parallele.
Ci sono sequenze del film
che ripropongono troppi topoi già noti alle cinematografie mischiate dei
melodrammi, dei thriller, dei noir: lo scienziato folle frankensteiniano, che
nel suo laboratorio clinico, sfida il tempo e la forma, il desiderio e la
solitudine, il senso del necessario e i limiti della vendetta; la casa perfetta
semivuota e immensa, arredata ipertecnologicamente e controllabile da ogni
punto con telecomandi e schermi che decidono del visibile e delle soglie tra la
conoscenza e l’immaginazione; stanze come carceri e sotterranei che nascondono
corpi in catene assetati e affamati di luce; giardini del peccato e letti di
scena in cui si consumano violenze e perversioni drogate di sostanze illecite e
psicofarmaci; fughe e roghi; suicidi che legano il destino delle figlie a
quello delle madri; madri che partoriscono uomini mossi dalla violenza della
follia, che non si riconoscono come fratelli e per questo si uccidono, gelosi e
traditi dalla sete di potere o dalla cecità che priva di legami e memoria.
La
pelle che abito è un volo rasoterra, che alza vento e
polvere, riempiendo gli occhi di granelli fastidiosi e sostituendo al tempo
dell’inabissamento e del sentire, quello dell’intrattenimento egocentrico,
dell’autocitazione di maniera, dell’esercizio di stile che ha bisogno del
supporto del racconto da tradire – Tarantola
di Thierry Jonquet – per provare a dire qualcosa a chi guarda.
Concordo con chi ha
ipotizzato che la pelle a cui si fa riferimento nel titolo potrebbe essere in
realtà lo stesso cinema del regista: Il
cinema che abito sarebbe quindi il titolo ombra rimasto nel cassetto di
Almodóvar. Questa pelle-cinema, volendo considerarne allora le caratteristiche
che emergono dal film, seppur bella e morbida, sarebbe pur sempre un prodotto artificiale,
creato in laboratorio in prospettiva eugenetica: più dura e resistente della
pelle naturale alle punture del mondo, ma anche meno sensibile e narrativa.
Pelle-barriera, pelle apotropaica, ma anche pelle-memoria, in cui è
sintetizzato un dolore che non deve e non può trovare voce e per questo prova a
cambiare forma. D’altra parte Robert, deus ex machina del film, è un chirurgo
estetico ed ha a che fare da sempre con storie di pelli, o forse sarebbe meglio
dire con pelli piene di storie, rifiutate da donne in lotta con il tempo e con
la propria identità. E poi, anche lui ha vissuto la sua parte di dolore, anche
lui si è sentito una pelle vecchia da buttar via, abbandonato, rifiutato dalla
moglie, che lo tradisce e prova a fuggire con un altro! Gal, la moglie di
Robert, fugge per “cambiar pelle”, come pure si dice per parlare di
trasformazioni, ma la pelle finirà per rimettercela, bruciata nel rogo
dell’auto con cui aveva tentato la fuga. La pelle, attenzione!, non la vita.
Gal non muore tra le fiamme, ma più crudelmente qualche mese più tardi, quando
è ormai fuori pericolo di vita grazie alle amorevoli cure coniugali. Accadrà
che la donna, dopo essersi imbattuta senza volerlo nella sua immagine postumana
riflessa in un vetro, terrorizzata, si getterà dalla finestra della sua stanza
da letto, cadendo, irriconoscibile, quasi in grembo alla figlia, sirena il cui
canto aveva innescato il percorso di riconoscimento della madre, finito in
tragedia. Inutile dire cha Norma, la figlia di Gal e Robert, morirà qualche
anno più tardi allo stesso modo della madre e che Robert inizierà la sua
ricerca transgenetica sulla pelle proprio nel tentativo, incubando il suo
dolore, di trasformarlo in unguento curativo di altri dolori, anche del suo,
non più solo marito rimasto vedovo di un amore traditore, ma anche padre
testimone della violenza che un altro uomo, Vincente, farà alla figlia in un
giorno di festa, che, neanche a dirlo, è un ricevimento di un matrimonio. Norma
si ucciderà in conseguenza alla violenza subita. Robert userà il suo sapere per
punire lo stupratore e trasformerà Vincente in Vera.
Vincente, commesso nel
negozio di vestiti della madre, verrà trasformato in donna. Robert lo/la terrà
a battesimo e deciderà di chiamarlo/a Vera. Il nome scelto per la nuova
identità del transgender suo malgrado non poteva essere più ironico e punitivo:
hai abusato di una donna, ti privo del tuo sesso violentatore e ti trasformo in
una donna. Per farti sentire cosa può provare una donna in un corpo violentato
(dalla chirurgia, dal sesso, dai travestimenti di tacchi alti e trucco)? Per
punirti trasformandoti in donna? A queste domande non c’è risposta. L’ambiguità
è accresciuta dal desiderio che Robert inizierà a provare ad un certo punto per
la sua creatura, che d’altra parte gli chiederà supplicandolo una “convivenza
tra pari”, e ancor di più dalla relazione che Vincente ingaggerà col suo corpo
di donna: V à V (si legge V
to V) sembra non sentire affatto il corpo il cui si ritrova senza volerlo; quel
corpo, nel quale dovrà imparare ad abitare suo malgrado, Vera decide di
utilizzarlo come un’ arma per punire il suo carceriere e per tentare la fuga e
il ritorno ad una identità, quella di Vincente, che non aveva mai pensato di
rinnegare. In questo c’è tutta la distanza da un altro film discusso durante il
cineforum, Boys don’t cry, in cui il
percorso di identificazione con il genere a cui si sente di appartenere è il
frutto di una decisione consapevole, o meglio di un’urgenza di verità. Boys don’t cry, d’altra parte, è una
storia vera. Questa affermazione è da leggersi con tutte le sfaccettature del
caso.
Nel film di Almodóvar,
la questione dell’identità, è posta come lotta alla violenza identificatoria
dell’altro: nonostante il corpo che tu, folle creatore, hai voluto cucirmi
addosso, continuo ad essere Vincente, sarto dell’atelier di mia madre e da mia
madre ritorno, perché lei, riconoscendomi, farà rivivere ciò che sono sempre
stato, riuscendo a vedere oltre ciò che sono diventato. Certo, un modo per far
avvenire il riconoscimento di un figlio dato per disperso, forse morto, dovrò
pur inventarlo, anche per lei, la donna che mi ha messo al mondo, perché lo
sguardo, anche lo sguardo della madre, ha bisogno di segni, possibilmente
visibili, che riattivino il percorso del sentire che porta all’amore e facciano
in modo che la madre rediviva sia creduta, quando annuncerà agli altri il mio
ritorno. Sì, indosserò un abito che conosce, un abito vecchio del suo atelier,
che avevo portato via prima della scomparsa e che è rimasto da qualche parte,
nascosto in qualche fotogramma, non importa dove; proverò a convincere i suoi
occhi prima che il suo cuore; il mio racconto potrebbe non bastare a rendermi
l’identità e il passato. D’altra parte la pelle non è forse solo un abito
colorato, una decorazione? La pelle che nasce con me, ad un certo punto è
destinata al tradimento. Come il mio corpo. Quando la mia estetica non
corrisponderà più al mio sentire, corpo e pelle, inizieranno a raccontare di me
ciò che la mia mente non accetta (la vecchiaia, il mio sesso, la mia malattia)
e allora sarà necessaria la cesura tra modi di sentire che evidentemente non
coincidono: quello di fuori e quello di dentro, quello della forma e quello
dell’essenza. Se la divergenza è anticipata dall’intervento di un folle, come
quello di Robert che opera Vincente, il silenzio del corpo e della pelle
inizieranno prima del tempo, questo è tutto. L’identità “Vera”, ma potrei dire
lo spirito, l’anima, l’essenza è tutt’altro da ciò che racconta una carta
d’identità. L’identità è un processo di identificazione che trova strade
diverse da quelle tracciate dalla norma. La Norma uccide (e si uccide) perché non
da scampo a stessa. La vita è nel gioco doloroso tra corpo-pelle e storia della
propria identità. Anche il volto rientra nel turbinio di ambiguità che
Almodóvar mette in scena: “il volto è la nostra identità”, fa dire a Robert in
una delle prime battute del film. Quale volto? devo chiedermi per mettermi in
gioco. Il chirurgo estetico mi parla di un volto restituito ad un corpo
dall’artificio umano, di un volto recuperato dopo un incidente, che potrebbe
consentirmi di nascere a nuova vita, di un volto simbolo di un’identità creata,
frutto comunque di un sentire che può avere più o meno le tonalità della paura
o del coraggio, ma che è pur sempre un sentire. Si tratta, in definitiva, solo di
imparare ad abitare.
Giovanna Callegari
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