sabato 2 marzo 2013

Giulietta degli spiriti

Giulietta degli spiriti, di Federico Fellini, col., 137', It, 1965


GIULIETTA DEGLI SPIRITI di Federico Fellini, col., 137', It, 1965. 

Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?
La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.
Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due  donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.
La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.
L’interrogativo è duro e non lascia molto scampo. Si è praticamente divisi su questo punto perché ognuno segue quella voce interiore fatta di esperienza, giudizio e speranza che a ciascuno  ha suggerito la singola tessera di quel caleidoscopio di opinioni di cui è fatto dibattito. In questo rispetto delle posizioni, tra le tanti voci, si avvertiva chiaramente una mancanza data dalla consapevolezza del fatto che Giulietta, l’attrice, la moglie, la donna resta a noi sconosciuta, nella vita, nonostante l’evocazione grazie alle parole di Kezich, così come nel film, ed è forse questo confine nascosto – questa differita, che sottolinea la profonda impossibilità dell’essere di coincidere – a restare intatto dalla rappresentazione del film.
È impossibile restituire la trama di un film come “Giulietta degli spiriti”. 
Fellini, forse oggi amaramente distante da un pubblico italiano disabituato al genio, risulta ai più pesante o ridondante, quasi offensivo con il sincretismo della sua rappresentazione. Il suo genio non potrebbe essere compreso a partire da una spiegazione dell’intreccio del film.
 I temi messi in campo sono veramente tanti: il corpo, la sessualità, la critica alla religione, l’autonomia della donna, il tradimento, il sacro, il profano, il riso, lo spiritismo, il tempio e la casa.
Ciò che è possibile restituire, in uno scarno resoconto come questo, sono le domande suscitate dai singoli film di volta in volta che creano il terreno di questo percorso laboratoriale sul genere.
E allora si deve affrontare con serietà quanto in ogni rapporto d’amore è possibile restituire la verità dell’altro/a, in questo desiderio di possedere l’altro/a fino in fondo, fino quasi a ricrearlo, come accade con lo psicodramma di Giulietta che diventa la metafora di tutto il film. Ricreare l’amata/o,  come un dio, se l’amore è una religione, nel desiderio incontenibile di comprenderlo.
Ma se l’amore non è una religione, allora questo sentimento non sembra passare in fondo  sempre attraverso una violenza? Una violenza che riconosciamo essere solo maschile ma che forse è propria della relazione d’amore.
Certo è che Fellini ha inviato, attraverso il corpo minuto e agile della moglie, il suo messaggio alle donne: ribellatevi alla santità! Sottraetevi alla graticola! Anche se il vostro tempio deve essere la casa, sacerdotesse le cameriere, offerte all’altare le conserve.
Sottraetevi alla condanna della religione e abbracciate la sensualità del corpo e della libertà!
Forse scoprirete che ciò che amate è in realtà una condanna da allontanare e che silenziosamente non aspettate altro che la sua partenza.

Quanto parlano ancora alle donne queste esortazioni?
Quanto ancora gli uomini, quelli avvertiti, innamorati, si sentono di ripeterla.
 Per dirla con la provocazione bonaria lanciata agli uomini durante la discussione: “Quanto potete fare di meglio?”


"Tutta la mia vita è piena di gente che parla, parla, parla, andatevene! Tutti fuori di qui"
(Giulietta)


Atto d’amore o allegoria di una giustificazione insostenibile?

La riflessione intorno a Giulietta degli spiriti deve necessariamente giocare di equilibrio tra la realtà e la finzione.

Dietro alla rappresentazione c’è lo sguardo di un uomo (Fellini) che dirige moglie (Masina) e amante (Milo), due icone agli antipodi del femminile, due donne prive di mistero e tuttavia profondamente se stesse, fino in fondo. Nel ruolo come nella vita.

La domanda che si è imposta sulla posizione di Fellini rispetto al suo film coinvolge naturalmente il vissuto di una relazione d’amore. Ci si interroga sul gesto, cosciente del regista e dichiarato, ma forse non profondamente sondato, di rappresentare l’universo interiore, sfaccettato e fantasmatico, della sua compagna e musa come omaggio all’imperscrutabilità di quel femminile rappresentato da Giulietta, come forma di scambio d’amore per cui la musa diventa oggetto inafferrabile della viva creazione artistica oppure come un’intollerabile manipolazione, una vera e propria violenza, da parte del regista sull’attrice, che le impone di recitare il suo giudizio, da parte del marito sulla moglie, che le impone come maestra di vita la sua amante, da parte dell’uomo sulla donna che diventa padrone assoluto della salvezza e della condanna.




L’interrogativo è duro e non lascia molto scampo. Si è praticamente divisi su questo punto perché ognuno segue quella voce interiore fatta di esperienza, giudizio e speranza che a ciascuno ha suggerito la singola tessera di quel caleidoscopio di opinioni di cui è fatto dibattito. In questo rispetto delle posizioni, tra le tanti voci, si avvertiva chiaramente una mancanza data dalla consapevolezza del fatto che Giulietta, l’attrice, la moglie, la donna resta a noi sconosciuta, nella vita, nonostante l’evocazione grazie alle parole di Kezich, così come nel film, ed è forse questo confine nascosto – questa differita, che sottolinea la profonda impossibilità dell’essere di coincidere – a restare intatto dalla rappresentazione del film.

È impossibile restituire la trama di un film come “Giulietta degli spiriti”.

Fellini, forse oggi amaramente distante da un pubblico italiano disabituato al genio, risulta ai più pesante o ridondante, quasi offensivo con il sincretismo della sua rappresentazione. Il suo genio non potrebbe essere compreso a partire da una spiegazione dell’intreccio del film.

I temi messi in campo sono veramente tanti: il corpo, la sessualità, la critica alla religione, l’autonomia della donna, il tradimento, il sacro, il profano, il riso, lo spiritismo, il tempio e la casa.

Ciò che è possibile restituire, in uno scarno resoconto come questo, sono le domande suscitate dai singoli film di volta in volta che creano il terreno di questo percorso laboratoriale sul genere.

E allora si deve affrontare con serietà quanto in ogni rapporto d’amore è possibile restituire la verità dell’altro/a, in questo desiderio di possedere l’altro/a fino in fondo, fino quasi a ricrearlo, come accade con lo psicodramma di Giulietta che diventa la metafora di tutto il film. Ricreare l’amata/o, come un dio, se l’amore è una religione, nel desiderio incontenibile di comprenderlo.

Ma se l’amore non è una religione, allora questo sentimento non sembra passare in fondo sempre attraverso una violenza? Una violenza che riconosciamo essere solo maschile ma che forse è propria della relazione d’amore.

Certo è che Fellini ha inviato, attraverso il corpo minuto e agile della moglie, il suo messaggio alle donne: ribellatevi alla santità! Sottraetevi alla graticola! Anche se il vostro tempio deve essere la casa, sacerdotesse le cameriere, offerte all’altare le conserve.

Sottraetevi alla condanna della religione e abbracciate la sensualità del corpo e della libertà!

Forse scoprirete che ciò che amate è in realtà una condanna da allontanare e che silenziosamente non aspettate altro che la sua partenza.


Quanto parlano ancora alle donne queste esortazioni?

Quanto ancora gli uomini, quelli avvertiti, innamorati, si sentono di ripeterla.

Per dirla con la provocazione bonaria lanciata agli uomini durante la discussione: “Quanto potete fare di meglio?”

Marina Nardone

Giulietta Masina. L'eterna bambina conquistò il cuore di Fellini 

Se c'era un'immagine femminile priva di mistero, era quella di Giulietta Masina come spuntava tutte le mattine, con un fazzoletto in testa e la borsa della spesa, al mercatino di via della Croce. Ci teneva ad apparire così, una perfetta padrona di casa incerta su cosa preparare per gli amici che sarebbero venuti a cena. Una piccola santa. Eppure Giulietta, fra le donne che ho conosciuto, resta forse la più inafferrabile. Non fu una vera e propria diva, ma qualcosa di più: dopo aver interpretato negli anni '50 La strada e Le notti di Cabiria era diventata celebre in tutto il mondo. Quando nel novembre 1990 accompagnò Fellini a Tokyo per il Praemium Imperiale, i giapponesi le si assiepavano intorno con la venerazione dovuta a una piccola santa. In patria la amavano meno, qualche critico sostenne perfino che non era una brava attrice. Aveva debuttato sul palcoscenico delle Orsoline, niente scuola di recitazione, formative esperienze al Teatro dell'Università e alla radio dove incontrò Federico e il cinema. Una carriera maturata nel cerchio magico della complicità coniugale, tanto da far dire ai maligni: la Masina è opera del suo Pigmalione, al di fuori di lui non esiste. Eppure negli anni '70, senza e perfino contro il marito, Giulietta fece il pieno degli ascolti con i teleromanzi Eleonora e Camilla. Invece nel cinema ebbe una certa difficoltà a trovare i ruoli, ma questo è stato vero per la maggior parte delle attrici italiane, a cominciare dall' amica-nemica Anna Magnani che era assolutamente la stessa sullo schermo e nella vita. Mentre era acrobatico stabilire un rapporto fra Giulietta e l' immagine che emanava dai suoi personaggi. Ricordo di aver provato un autentico sconcerto rivedendo accanto a lei Cabiria a un Festival di Valencia, dove riservandole accoglienze da capo di Stato le avevano dedicato una personale. Quell'interprete scatenata, con le accensioni e le invenzioni mimiche per cui la definirono «Chaplin femmina», non sembrava avere niente in comune con la piccola signora, dai malevoli definita banale, che la guardava dalla platea. Quasi stupita di sé stessa, al punto che mi sussurrò: «Non mi pare neanche di essere io». Giulia (ribattezzata Giulietta da Federico, che la chiamava Giuliettina) aveva avuto un’infanzia felice quanto anomala. Si mormorava che fosse una figlia naturale di suo padre Gaetano, un prestante violinista, accettata dalla madre maestra che poi l'affidò senza remore a una zia abitante a Roma nei pressi di piazza Ungheria. Di questo retroscena non esiste prova, forse la chiacchiera nacque per spiegare in qualche modo la personalità di Giulietta: semplice in apparenza, in realtà complicata o addirittura contraddittoria. A differenza di Federico, sempre inquieto e problematico, era cattolica osservante e credeva nei valore borghesi. Paventava Rossellini, che considerava un cattivo esempio per Federico in materia di denaro, e considerava Pasolini un corruttore della gioventù. In generale diffidava di quasi tutti gli amici del marito, a parte Tullio Pinelli. Concepiva la vita come una serie di doveri: la casa, la cucina, gli abiti e le abitudini del consorte, i film e la rappresentanza. Senza troppo compromettersi, Fellini sfarfalleggiava nell'universo femminile, ma si considerava sposato per sempre, tant'è vero che si spense poche ore dopo la ricorrenza delle nozze d'oro. Telefonava a Giuliettina cinque o sei volte al giorno, anche quando doveva scovarla sotto il casco del parrucchiere, voleva sapere sempre dov'era, cosa faceva e quando sarebbe rientrata. In compenso se stavano in compagnia non lasciava parlare senza interromperla, la rimbeccava impaziente; e sul set, lui sempre gentilissimo con tutti, si riservava l’odioso privilegio di trattarla male. Un giorno che glielo feci cautamente notare, dopo la ramanzina troppo rude su una scena di Ginger e Fred, lui mi spiegò: «Ma Giulietta è come se fosse la mia mano, sarebbe bello che la mia mano, se le ordino di prendere qualcosa, andasse da un'altra parte...». Pur disciplinatissima, in certi casi lei deponeva ogni mitezza, rispondeva per le rime e a volte si riempiva il bicchiere di whisky per far dispetto a lui che era quasi astemio. Però diventava una belva per difendere Fellini e i suoi film se qualcuno li criticava. Per anni ebbe un cavalier servente, il giornalista Salvato Cappelli, al quale Federico era riconoscente per la compagnia che faceva alla moglie non senza qualche paradossale spunto di gelosia. Quanto a lei, si sentiva oppressa dall'invidia delle donne per il compagno eccezionale che aveva saputo assicurarsi e quando le riferivano la ricorrente voce ostile («È una donnetta, non è all' altezza di un uomo così...») reagiva secondo i casi. Si comportò da gran signora quando una sciagurata che aveva scritto un memoriale sui suoi amori con il regista (uno dei tanti della vasta e risentita letteratura femminile dedicata al Maestro) le lasciò nella portineria di via Margutta una copia con dedica. I coniugi Fellini buttarono il libraccio e non ne parlarono con nessuno. Forse nemmeno fra loro. Nelle occasioni pubbliche, dove il marito insofferente di cerimonie e onoranze spesso la delegava a rappresentarlo, Giulietta si comportava come un'ambasciatrice. Misurata, sorridente, le parole sempre soppesate, le domande insidiose abilmente lasciate cadere. In privato, invece, poteva rivelarsi lunatica; e soprattutto dopo la quarantina, nell' epoca in cui il nostro cinema privilegiava le maggiorate trascurando le attrici di talento. In quei frangenti le capitò, mal consigliata, di rivolgersi a un'agenzia investigativa per far pedinare e fotografare Federico nel corso di una delle sue scappatelle. Per tutta risposta, lui inserì l'episodio in Giulietta degli spiriti e lei si adattò a recitarlo con una sottintesa dose di ironia. Accettò l'incalzare del tempo installandosi bene in quella che Freud chiamò «L'età della pace», molto meglio di Federico che prendeva ogni segno di invecchiamento come un'offesa personale. Quando fu il momento di girare la scena del ballo di Ginger e Fred, in cui Marcello Mastroianni fa un capitombolo, Giulietta pretese che si filmasse a futura memoria una sequenza in cui loro due eseguivano il numero alla perfezione. Era una ballerina instancabile e ne ebbi la prova quella notte a Valencia, dopo il film, quando appreso che c'era una fiesta in periferia volle andarci, si buttò sulla pista e pur avendo oltre 60 anni non smise di coinvolgere fino all'alba, l'uno dopo l’altro, i giovanotti dell'organizzazione, un po' lusingandoli e un po' stremandoli. Su questa immagine di vitalità si sovrappone crudelmente quella della salma di Giulietta nell'obitorio della clinica dove le recai l'ultimo saluto. La malattia l'aveva come rattrappita, ridotta a sembrare quella bambina che Federico aveva sempre visto in lei. Ma in Giulietta lui aveva scoperto anche la sua vera madre; e lei nel marito aveva ritrovato il padre e insieme il figlio morto di pochi giorni nel 1945. Intorno agli incontri del destino fra un uomo e una donna, la vita imbastisce i suoi misteri.
Kezich Tullio (1 agosto 2002) - Corriere della Sera


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