martedì 7 giugno 2011

Una pura formalità


Una pura formalità, di G. Tornatore, colore, 108 min., Italia/Francia 1994.


Da che prospettiva si pensano la non-morte e la non-vita? I non-morti-non-vivi riescono a guardarsi nello specchio (s)poetizzante delle immagini in sequenza e a sperimentare la possibilità di dire di sé come se fossero altro da ciò che pensano di sé, come se fossero acqua senza scopo, vibrazione senza energia, organo senza organismo?
Non estinguendo l’ipoteca del paradosso, ma rendendo al contrario ben visibile l’ubriachezza della ragione, che tenta sempre di raccogliere il suo resto, i suoi avanzi, le briciole di imponderabile che rischia ogni volta di disseminare lungo il terreno ventoso della follia, è possibile dire dell’inimmaginabile rendendolo teorema che sa di favola?
Proviamo a reimmergerci attraverso la scrittura nell’atmosfera sospesa, pesante d’acqua e desiderio, di Una pura formalità, che, dipingendo e riempiendo la dimensione puntuale tra vita e morte, sposta il baricentro dello spettacolo un po’ più in là della linea di equilibrio della vita, avvicina al margine dell’involucro corporeo che organizza le sensazioni e le funzioni vitali, porge l’orecchio in direzione del silenzio e giocando di strabismo ed amnesia, sembra voler alleggerire il peso delle assenze che il/la non-morto/a-non-vivo/a coltiva nelle stanze invisibili della sua solitudine, destinate a rimanere spoglie, risonanti di echi confusi, troppo grandi per essere riempite.
Nell’ambito del ciclo di proiezioni del laboratorio cinematografico della Geisterphilosophie, Una pura formalità è uno sguardo, forse il più decentrato finora, sulla non-vita che si racconta e si ricostruisce da una prospettiva insolita, situata tra la non-vita e la non-morte, in un luogo che non è uno spazio, bensì un punto. L’avamposto galleggiante dei Carabinieri in cui si imbatte confuso ed impaurito Onoff, non è, infatti, imprigionato nella luce tragica caravaggesca che illuminando allarga lo sguardo, lo spazio vitale, il tempo dei corpi intrecciati che abitano il Limbo cristiano-dantesco o l’hamistagan zoroastriano. L’avamposto di frontiera pietroso e gocciolante sembra invece illuminato ad intermittenza solo dal ricordo recuperato, dalla parola liberata dal silenzio, dal fluire sanguigno del vino in vene sottili di cristallo, dalla trappola nascosta del nutrimento solo corporeo della vita. Luce non luce, che al bianco onnicomprensivo della verità, sostituisce la parzialità poetica di certi colori, le ombre delle tonalità visibili e sonanti della vita immaginata e della non vita recitata, le sfumature cupe e sensuali dell’interiorità, che sanno di carne, paura e corpo desiderato (come) proprio.



Tra le frequenze dominanti verdeblugrigio e le esplosioni azzurro-rosso-bianco, la non-vita si svincola dalle rappresentazioni che la immaginano come negativo della vita o positivo della morte. In assenza di luce, d’altronde, come potrebbe esserci mai controluce? La scena è riempita invece dalle sfumature intense di quella natura innaturale, visibile solo all’occhio daltonico. La non-vita, se ce n’è, scriverebbe Derrida, è qui il colore del sogno, lo spessore delle allucinazioni, che non fanno della non-vita il racconto riflesso della/dalla non-morte, ma le donano invece il sapore dolce del ricordo mancante di sé del poeta, il retrogusto amaro della bugia della vita che struttura il senso di colpa del sedicente vivente, la stretta del nodo in gola della menzogna dello smemorato che, d’improvviso, tra la vita e la morte, si accorge che tutto è iniziato e finirà con il riconoscimento della propria innocenza, con l’ammissione della propria patetica e irrimediabile natura di teatrante,  giocoliere, trasformista. Presa di coscienza dolorosa da parte del morto, che non ancora riconosciuto cadavere dalla scienza, si aggira come salma che gode ancora delle funzioni acquisite in vita, sulle terre di frontiera che compaiono al di là della selva selvaggia dantesca. Una pura formalità che, tuttavia, sa di legge e necessità.

Il bianco e il nero paralleli del visibile e l’abisso trasparente dell’improprio

L’immaginazione è più timida della ragione, dovrebbe osare, provocare, sfidare l’esistente, attivando le risorse che s’intrecciano tra le pieghe del corpo codificato nella dimensione del visibile-sensibile come res extensa. «L’immaginazione al potere!», gridavano i manifestanti che riempivano le strade in rivolta nel ‘68, le femministe soprattutto, che mescolando le suggestioni critiche e rivoluzionarie del “sensibile al margine” Marcuse, al pane e alle rose d’epoca delle creative masse rivoluzionarie di Rosa Luxemburg, chiedevano ciò che sempre sembra impossibile: che il reale liberi il suo potenziale; che la vita, potremmo dire, si metta in ascolto della non-vita e della morte, e, spogliandosi dei panni rassicuranti ed omologanti della moda addolcente dell’anno secolare in corso, si esponga al vento sferzante, alle bufere di neve, alle piogge, valanghe e inondazioni romanticamente turneriane di un pensiero auto-critico, ribelle a sé stesso e poeticamente tormentante. È così, forse, che diventa possibile “dimostrare i teoremi come si raccontano le favole” e realizzare un film che racconti l’impropria relazione che si potrebbe immaginare esista tra vita e morte, legate, forse, in un punto geometrico elementare, primitivo, statico, che attende di essere vivificato dalla morte che pensa la vita, dalla salma che prova a ricordare e sapere, prima di dimenticare, ancora. Tornatore esplicita, attraverso le parole di Onoff, la poetica-geometrica che sottende la realizzazione del film:
Due rette parallele non si incontrano mai, tuttavia… è possibile immaginare l’esistenza di un punto così lontano nello spazio, ma così lontano nell’infinito, da poter credere e ammettere, che le due rette vi si incontrino. Ecco, chiameremo quel punto punto improprio
Il bianco e nero, correndo paralleli, si incontrano nell’invisibile, che annulla la differenza nota, compone le frequenze e recupera le sfumature.

Il verde bosco trappola e la metafora metallo dello smarrito senza identità

Il film di Tornatore si apre come un thriller: il rumore di uno sparo, poi un uomo che corre attraversando un bosco scuro e inzuppato d’acqua. Il suo volto è scomposto dalla paura, dall’affanno, dalla strana acutezza dell’animale braccato. Vogliono ucciderlo, pensiamo, o forse è lui ad aver ucciso qualcuno. L’uomo si fa strada tra i rami e le foglie. Sta tentando di uscire dalla selva, dalla trappola dell’intrico che la natura trama. Attraversiamo il bosco attraverso il suo sguardo, in soggettiva. Lui/noi, la prospettiva è la stessa, fin quando la camera non allarga l’inquadratura e noi non siamo più lui. Quell’uomo è Onoff, lo scrittore morto senza sapere di esserlo, il suicida, serial killer di professione, trovatosi coinvolto in una strana storia di cancellazioni e ricostruzioni di identità, da cui, ad un certo punto, decide di tirarsi fuori, di passare la mano per non rischiare di essere scoperto, per terminare la sua carriera di baro con onore e dignità. La vittima di Onoff è in realtà una sola, sempre la stessa e si cela dietro nomi e storie diverse: il suo personaggio in cerca d’autore. Il bambino abbandonato senza aver ricevuto un nome da chi lo ha messo al mondo, è ucciso da Biagio Febbraio, il bambino ritrovato il 3 febbraio, il giorno di S. Biagio, salvato e nutrito dal nettare della poesia di strada; Biagio Febbraio è poi ucciso da Onoff, il bambino scopertosi scrittore grazie al buon cuore veggente del vagabondo Faubin, che non solo gli regala un nome d’arte pieno del fascino che avvolge gli scrittori russi dell’800,  ma anche il libro che ha dato ad Onoff, per la prima volta, fama e ricchezza: “Il palazzo delle nove frontiere”, romanzo della nascita dell’uomo alla scrittura come forma d’arte e di espressione di sé – non allude forse, il nove, ai mesi di gestazione necessari all’essere umano per venire al mondo?; Onoff, infine, è ucciso dal bambino senza nome che aveva continuato ad esistere invisibile dentro di lui che, approfittando del silenzio della scrittura, riesce ad invocare e ad ottenere lo smascheramento, il respiro, la morte della non-vita.
Il trapasso di Onoff è, allo stesso tempo reale e metaforica e si realizza quando la scrittura si interrompe. Senza la scrittura muore lo scrittore e con lui l’inautenticità di un’esistenza costruita sulle fondamenta di una autobiografia senza radici sporche di terra e di vita, copia conforme di tutte quelle narrazioni sull’identità prive di verità, in cui l’abbandono, la solitudine, l’assenza di un nome diventano omissis necessari alla resa estetica dell’inganno. L’esistenza di Onoff è stata una non-vita addolcita dal successo è inaridita dal tormento, in cui l’amore non ha trovato posto,  “perché – dice lo scrittore – si prova un grande disagio ad essere amati”.
Quando si imbatte nella selva selvaggia Onoff, come tutte le salme, non avverte un cambiamento della sua dimensione esistenziale: crede che ciò che sta vivendo appartenga alla vita, che ciò che gli accade sia possibile; come il topo da libreria, che crede davvero che si possano trovare bocconcini di gustosissimo (!!) formaggio sulle mensole di legno polverose di un Commissariato.
Metafora di dolore e smarrimento, il bosco nasconde una trappola: Onoff incontra i carabinieri, che trovandolo sprovvisto di carta d’identità, lo conducono al commissariato, luogo di detenzione, confessione, liberazione.
Il verde intrama la pellicola e vivifica, anche nelle sue sfumature più cupe e marce, l’atmosfera neroblu che attraversa, rifrangendosi tra passato e futuro, il punto improprio che dice dell’impossibile.

Il grigio latte memoria, l’azzurro coperta che ripara e l’acqua che annega e nutre
Onoff è uno scrittore suicida, vittima di “un banale vuoto di memoria”: non ricorda di essersi ucciso. Amnesia lacunare, funzionale all’avvio di una faticosa ricerca introspettiva, scandita dalle fasi della relazione dialettica tra Onoff-Depardieu e il Commissario-Polanski, che, nell’atmosfera kafkiana del Commissariato di frontiera, sottopone lo scrittore incredulo e arrabbiato ad un agguerrito interrogatorio psicanalitico. Il thriller si trasforma in giallo, mentre un colore inaspettato, come un pugno in faccia, cattura le nostre sensazioni ed emoziona per la poesia e la sfrontatezza con cui si concede all’uomo e alla donna di inserire un angolo di azzurro di lana calda nel grigio della prigione che non concede amnistie, anche di fronte all’impotenza di vivere.
Il morto, che non sa di essere tale, che non sa di essere circondato da fantasmi in divisa, che non riconosce il suo stesso corpo cadavere che gli passa sotto il naso, deve sostenere il peso del vuoto che occupa lo spazio di dentro che si chiama memoria. Tra i ricordi di latte e il sussurro dell’acqua
che annega il Commissariato, Onoff deve ricordare e rispondere dell’accusa formulata nei suoi riguardi dal commissario che, per inchiodarlo al silenzio che precede l’urlo di dolore, si arma di parole scaturite proprio dalla penna dello scrittore, dense di tempo e (in)coscienza: «Per non morire di angoscia o di vergogna, gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita e più sono sgradevoli prima si apprestano a dimenticarle». Tra menzogna e verità, passeggiamo anche noi con il morto Onoff, tra gli alberi insanguinati e violentati della foresta di Rashōmon, confusi dal gioco mortale e disperato su cui, ci accorgiamo da spettatori che guardano a distanza di sicurezza, si regge la vita.
Onoff, sopravvissuto alla sua colpa grazie ad una condanna, è ora resuscitato in morte dalle parole recitate dal commissario, che lo accusa di cappa e spada di omissione di ricordi, di mistificazione d’identità, di menzogna esistenziale. Se Onoff non accede al racconto della sua storia il volto orribilmente sfigurato dell’assassinato/a ritrovato/a quella notte, resterà per sempre ignoto al commissario. La giustizia sarà evasa, la detenzione diverrà eterna. Il dubbio sull’identità sessuale del cadavere, che attraversa alcuni attimi del dialogo tra Onoff e il Commissario, potrebbe rappresentare il sussurro di una critica, o quanto meno un principio di problematizzazione, della/sulla costruzione stereotipata del (proprio) genere da parte del singolo e della società.
Grigio è il passato da recuperare dalla memoria che galleggia nel latte che nutre e avvelena, mentre l’acqua tenta di vivificare e abbeverare lo spirito e il corpo animale.

Il rosso rubino che scorre e la scrittura invisibile impossibile
Ci sono sequenze che colpiscono l’immaginazione, che impressionano, alludono, danno colore allo sguardo e accendono passione e desiderio. Vino corposo versato in un bicchiere di vetro. Sangue nelle vene. Rosso rubino che interrompe il buio di legno e pietre di una stanza abitata da salme e fantasmi. Siamo a teatro. Una pura formalità è, in definitiva, la rappresentazione di un dramma interiore che tuttavia solo un corpo morto-vivo può raccontare. Tornatore, per moltiplicare allusioni e rimandi, costruisce l’utero-commissariato rendendolo eco della parabola dello scrittore. Lì, dove tutto è inconsciamente noto e familiare, è possibile iniziare a raccontare, a ricordare.
Onoff ha inventato l’identità con cui si è assicurato un posto al mondo. L’ispirazione rubata gli consente di non morire di solitudine, di poter salire sul palcoscenico per recitare la sua parte. La sua moneta falsa gli ha fruttato una fortuna. Poi, la vena creativa alimentata chissà come si inaridisce, la sua penna non scrive più ed eccolo, solo, davanti a fogli bianchi che non riesce più ad imbrattare di parole. Onoff, per il quale scrivere è come vivere, che non ha mai saputo far altro nella vita che galleggiare tra il nero dell’inchiostro e il bianco della pagina, ora si sente come Zeno: un inetto senza potere e gioia. Dovrebbe accettare la sconfitta, arrendersi all’evidenza sgranando il rosario delle colpe e dei successi ottenuti nonostante tutto, nonostante l’inganno, la finzione, la menzogna. Ma siamo a teatro!, la passione, la disperazione, l’impatto con la vita di sangue rifiutano ogni possibile procedimento analitico e allora lo scrittore non può far altro che tirasi un colpo di pistola. La sua (auto)(psico)analisi post mortem si chiamerà interrogatorio e il suo dottor S., il commissario appassionato di romanzi, non mancherà di rilevare l’incapacità di relazione di Onoff, la sua scadente arte di vivere: «lei non è degno delle opere che ha scritto. – gli urla contro – I suoi romanzi, i suoi racconti, le sue poesie, le sue canzoni, valgono più di lei». Ed Onoff, sarcastico e dolorante: «Me lo auguro!», gli risponde, mentre Dio inizia ad apparirgli sempre più chiaramente come «un autore di irrilevante importanza».
Rosso è il colore del sangue che ubriaca la vita, che asseta il vampiro, che avvelena il sedicente vivente.

Il seppia, l’argento, le perle di volti d’inchiostro e l’improprio lascito d’avvenire

Come recuperare la memoria che non vuole recuperarsi, che ha lavorato, al contrario, per sotterrare il ricordo, il passato, i sentimenti nascosti negli ingranaggi del tempo? Un film non può che lavorare su/attraverso le immagini ed ecco allora i flashback che riportano Onoff ad istanti di vita confusi e sovrapposti tra le pieghe delle registrazioni dello sguardo. Lo scrittore è accecato da luci di cui non può regolare l’intensità. Come abbaglianti che sbucano dal buio di una curva, i ricordi sorprendono e fanno (del) male. La mente però, soprattutto quella di chi si dedica alla scrittura, può giocare brutti scherzi e rendere propri ricordi di altri, immagini della propria vita, i simulacri acquistati a buon mercato nel bazar della non-vita. Il gioco sottile tra immaginazione e realtà diventa qui il tentativo dello smemorato, appesantito da una colpa inconfessabile, di rimanere in equilibrio sopra la follia. L’intima confusione che tutela e scredita, per recuperare un principio, seppur parziale d’ordine, ha bisogno di gettare un’ancora nel mondo condiviso della parola/rappresentazione comune. Il fondo sabbioso su cui incagliarsi è allestito dallo zelante commissario, che in nome della verità e della giustizia, ha rubato i ricordi di Onoff, custoditi e archiviati in vecchie foto seppia e in bianco e nero, dal ripostiglio polveroso della casa del suicidio. Lo scrittore, sfogliando il suo diario fatto di volti, inizia a ricordare, a nominare, a raccontare. Solo la sua foto da bambino non è vivificata da commenti: Onoff non si riconosce, non ha memoria di sé, gli manca il racconto della (sua) vita. È forse per questo che ha potuto suicidarsi e poi dimenticarsene.
Nel punto di congiunzione e sovrapposizione tra vita e morte, tra le pareti del Commissariato di frontiera, Onoff racconta per la prima volta la sua storia, mostrando l’improprietà della vita. Mentire per non-morire, ma anche per non-vivere. Dimenticare per non-vivere più autenticamente, per preservare ciò che in realtà non si conosce o, forse, non può esistere nel commercio quotidiano col mondo. Onoff lascia nel presente della dimensione appena abbandonata, la testimonianza scritta di qualcosa che potrebbe forse essere allo stesso tempo un principio di vita e di morte, una testimonianza impropria immaginata della vita che non è stato e della morte che non ha potuto scrivere. L’ultimo romanzo di un suicida.
Una pura formalità lascia tracce color seppia, argento e perla, colori dell’alba dei morti viventi.

Giovanna Callegari

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