mercoledì 5 gennaio 2011

Dracula di Bram Stoker


Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula), di F. Ford Coppola, 128 min., USA 1992.


«Se è la cultura che cerca, visiti un museo!». Così si esprime Mina Harker durante il primo, fatidico incontro con il principe Vlad nel Dracula di Bram Stoker di Coppola. È un ammiccamento ironico da parte del regista (e dello sceneggiatore) riguardo al cinema, ma anche un avvertimento reale allo spettatore con troppe aspettative: qui si fa spettacolo, la vera cultura va ricercata altrove.
Spettacolo come necessità di sopravvivenza, per una casa di produzione, la Zoetrope, sull'orlo della bancarotta, spettacolo come necessità espressiva, in un gioco di ombre tra ombre che si rincorrono e sono sempre fuori tempo rispetto a chi le genera, spettacolo come vita di finzione che si contrappone alla vita reale, pur inseguendola sempre, così come la vita del non-morto si contrappone all'esistenza dei viventi ma la ricerca, la brama, è necessaria alla sua stessa esistenza.
Un gioco di contrapposizioni e rimandi che continua nel rapporto tra testo narrativo e testo visivo, con le libertà interpretative che portano questa versione del romanzo di Bram Stoker ad essere allo stesso tempo la più vicina in senso letterale e quella che forse si allontana di più nella sostanza dal testo scritto.
La presenza di citazioni e rimandi fa sì che questa di Coppola del 1992 sia una summa delle versioni precedenti, una citazione e rimando continuo a tanto altro cinema dell'orrore, in un desiderio di attirare un pubblico cinematograficamente adulto, pur in un film che molto si orienta a una platea giovane, nella necessità dichiarata di essere film di successo.
Barocco, eccessivo, rifiuta gli effetti speciali digitali per rifarsi con quelli ottici al cinema degli albori, con modellini, sovrimpressioni in ripresa, slow motion, stop motion, riprese al contrario. E il legame non è casuale, visto che il romanzo è praticamente coevo alla nascita del cinema, in un legame che rimarrà stabile nel tempo (Dracula è uno dei personaggi letterari con il maggior numero di trasposizioni cinematografiche).
Citazioni, rimandi, ma anche libertà. È nelle differenze con il romanzo che bisogna cercare una chiave di lettura.
Il vampiro, da essere ferino, animale selvaggio che brama il sangue, diventa una figura drammatica di vedovo dannato, un essere che dentro di sé brama la pace, pace che solo la protagonista gli potrà dare, nella non-morte come nella morte vera e propria. Mina, d'altro canto, come l'altra protagonista Lucy, è una donna consapevole. Una volta acquisita coscienza dell'antico legame con il principe delle tenebre, Mina si trova divisa tra l'amore per Johnatan e la passione per l'amante notturno, ma non subisce passivamente.
La figura del vampiro diventa così una metafora della liberazione della donna nella società vittoriana, la sessualità che viene repressa a tutti i costi per far sì che la donna rimanga sottomessa, passiva. Il vampiro si manifesta come la possibilità di una vita libera, per questo gli uomini lo devono sopprimere, per mantenere lo status quo. La libertà che si manifesta sotto forma di "bacio", del sangue che viene scambiato e in questo richiama a tante altre forme di vita libera che, passati gli anni della liberazione sessuale, proprio in quel periodo venivano etichettate come pericolose: l'omosessualità, la tossicodipendenza, l'eccessiva promiscuità sessuale... Sono, è bene ricordarlo, gli anni in cui l'AIDS è in cima alle priorità tra i problemi dell'Occidente. Il vampiro appare come l'emarginato, che riesce a farsi accettare nella società, e dalla protagonista, dandosi la forma di un dandy, ma è dilaniato dalla consapevolezza della sua vera essenza.

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