giovedì 25 novembre 2010

Frankenstein di Mary Shelley


Frankenstein di Mary Shelley (Mary Shelley's Frankenstein), di K. Brannagh, colore, 123 min., USA 1994.


Frankenstein di Mary Shelley, prodotto da F. F. Coppola e diretto da Kenneth Branagh, può considerarsi la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo filologicamente più corretta, nonostante alcune differenze.
Con questo film, concluso il “ciclo zombie”, si apre un capitolo nuovo caratterizzato dalla categoria del costrutto per eccellenza.


La Genesi
I riferimenti alla nascita della storia di Frankenstein risultano utili per la sua comprensione. Secondo il famoso aneddoto, la Shelley con il marito ed alcuni amici, costretti  in casa da un temporale , avrebbero occupato il tempo raccontandosi storie horror. L’autrice avrebbe trovato l’ispirazione dopo aver ascoltato i discorsi del marito e degli amici sulla medicina ed il progresso. Questo ci cala subito in un contesto storico ben delineato:  la seconda  rivoluzione industriale con l’attenzione particolare all’ “elettricità” (non a caso è l’impulso elettrico che rianima la creatura) che produce una netta accelerazione del processo storico. Tutto è in continuo fermento e questa condizione di novità perpetua genera entusiasmo ma anche paura. Sullo sfondo, la grande rivoluzione, quella francese che è frutto di un Settecento, “illuminato” forse ma, a prescindere dalle interpretazioni, è sufficiente registrare il cambiamento radicale, culturale e sociale. L’Europa tutta vive il mutamento profondo e le volontà restauratrici non bastano ad arrestare un processo innescato che non è più gestibile dal potere perché coinvolge anche la “massa”.
In Frankenstein i riferimenti alla tecnologia appaiono evidenti da subito ed è chiaro che il progresso venga considerato un’arma a doppio taglio, capace di produrre benefici ma anche mostruosità ed è il confine tra la vita e la morte che appare sempre più labile.

 Il tema della generazione e della creazione
La vicenda di Victor Frankenstein inizia con un avvenimento traumatico: la morte della madre. Tale evento innesca un doppio vissuto emotivo (che orienterà tutta la “non-vita” del dottore): la colpa e l’abbandono.
Victor vive nella morte che diventa per lui sempre più un tormento; il suo senso di colpa e la curiosità per le scienze lo conducono allo studio della medicina che rafforza la speranza di poter un giorno “generare” una vita (?) capace di vincere le malattie (nel romanzo la madre ha tra l’altro contratto la scarlattina) ed in definitiva la morte.
In un gioco di sostituzioni e scambi di ruolo, Victor genera; ma genera nell’unica maniera che gli è propria, ossia dalla morte.
La sua creatura è frutto di una minuziosa ricomposizione di parti morte appartenute ad un’umanità varia ed alle quali, come Dio con il soffio vitale, dona l’impulso elettrico capace di rianimarle.
Il risultato fallimentare del proprio atto creativo si traduce nella riproposizione del modello dell’abbandono e Victor da abbandonato diviene “abbandonante”.
Nella creatura la rabbia ed il furore che ne derivano lo inducono a vendicarsi della madre/padre, restituendo ancora una volta solo morte.
La creatura, in questa veste,  appare non solo frutto dell’ideazione di Victor, ma anche il suo alter ego.
Manifesta quella rabbia per l’abbandono che Victor non esprime. È il suo inconscio che trova realizzazione nell’esistenza e nelle azioni del “mostro”.
Ma lo scambio di ruoli persiste ancora nel personaggio di Elisabeth che da sorella si trasforma in amata/sposa ma anche in madre/figlia. Questo tema apre a considerazioni sulla famiglia come istituzione ed al mutamento profondo di cui il non chiaro “incesto” fornisce sentore (nelle edizioni del romanzo, diversamente dal film, Elisabeth una volta è adottata ed una volta è figlia-orfana di una parente della madre di Victor).

Il tema politico sociale
Il tema politico-sociale passa attraverso il concetto di generazione nella misura in cui le parti morte che compongono la creatura corrispondono a quella parte sociale morta e rianimata che genera a sua volta paura.
Nel film, Il professore Waldman, da cui Victor trae insegnamenti, viene ucciso da un personaggio che porta i segni nel corpo dell’esclusione sociale (nel film è interpretato da Robert De Niro che interpreta non a caso anche la creatura).
La morte del professore rappresenta per Victor un momento cruciale: la necessità impellente, avendo oramai acquisito una serie di conoscenze specifiche, di mettere in pratica il suo proposito di creazione.
Victor sceglie le parti da ricomporre tra i morti “epidemici” in primis, tra i portatori, dunque, di un contagio che è anzitutto sociale.
Ad esse assegna, però, non un cervello qualsiasi, ma quello del suo professore. Assegna, in altri termini, a parti sociali necrotiche uno strumento di potere sensazionale, la conoscenza.
E come gestire un potere tanto grande senza un minimo di orientamento? La Shelley fa rivendicare alla creatura la difficoltà di utilizzo dei propri strumenti. E la mancanza di una guida genera violenza.
Victor, che rappresenta la parte sociale più progressista, è colpevole di aver strumentalizzato quella parte di società anonima abbandonandola a se stessa perché incapace di gestirla.
Emerge, in definitiva, da un lato, la critica del tempo dei “conservatori” che paragonavano la fase rivoluzionaria alla creazione di un mostro e la paura che la “massa” emergente potesse disseminare ancora violenza, perché solo di questo poteva esser capace; dall’altro la responsabilità, tutta politica, (del padre) di non saper gestire il mutamento socio-culturale.

Gabriella Galbiati

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