domenica 8 maggio 2011

Departures





Departures (Okuribito), di Y. Takita, colore, 130 min., Giappone 2008.



«Èvero, i cadaveri sono apprezzati solo nei film horror soprattutto nel ruolo di morti viventi, mentre qui appaiono come defunti reali, al centro del dolore delle persone care, e da noi sarà tutto un toccarsi». Natalia Aspesi[1] riassume in queste parole il senso di disagio che lo spettatore (italiano, in particolare) prova immediatamente nel vedere questo film. E involontariamente delinea il senso dell’interpellazione geisterphilosophich di Departures: l’altra faccia dell’Unheimliches geisterphilosophich legato alla non-morte è questo perturbante superstizioso legato, direttamente, alla morte. È in questo campo rarefatto, in questo scarto sospeso, che si dà, in tutta la sua drammaticità, l’appello geisterphilosophich e, per così dire, l’inquisizione geisterphilosophich sulla non-vita, essa stessa mediatore evanescente sospeso tra morte e non-morte.

Prima considerazione di carattere geisterphilosophich: la non-vita fa da mediatore evanescente tra vita e morte. Esattamente come la non-morte essa non è morte ma non è ancora neanche vita. Esattamente come la non-vita, la non-morte non è ancora morte, ma già non è vita. Si vede qui molto bene, ancora una volta, come la dialettica pluralizzata della Geisterphilosophie metta in gioco una specularizzazione rifrattiva (o diffrattiva), ovvero anche frattiva, frattale, virtualmente ad libitum. La considerazione fondamentale, qui, è ovviamente che la non-vita è l’altra faccia della non-morte; la faccia non vista, se vogliamo, la sfoglia speculare che sta al di là della pellicola fantasmagorica e fenomenale della non-morte (questa sì ben visibile, ancorché – e anzi proprio perché – fantasmaticamente proiettata) e ciò a cui la non-morte, proprio in quanto tale, rinvia necessariamente perché con essa fa tutt’uno pur non essendone l’identico. La non-vita è quasi la non-morte. E viceversa la non-morte è quasi la non-vita cui immediatamente (e implicitamente) sempre rinvia pur non coincidendovi.
(En passant, è bene sottolineare un’ovvietà: quel quasi non è assolutamente peregrino o occasionale – esso è anzi il perno su cui gioca tutta la Geisterphilosophie, lo scarto dissonante, la rifrazione che fa da spia della diffrazione ontologica del reale, la fata morgana del cosmo.)



Di conseguenza, bisogna subito mettere in chiaro la distanza – minima ma assoluta – che separa la non-vita dalla vita (e la non-morte dalla morte): infatti la vita è quasi la morte, opposta piuttosto alla non-vita che ne è lo specchio opaco. Così come la morte è quasi vita, ne è per così dire la rifrazione, che si oppone specularmente alla diffrazione fantasmagorica della non-morte[2].


Departures offre l’occasione di indagare proprio su questo terreno, scabroso quanto si vuole ma altrettanto fondamentale, per dar voce direttamente al fantasma della morte. Giacché di questo si tratta: del terribile e scandaloso fantasma della morte, che entra dalla finestra a perseguitare il “sonno dei giusti” della sonnacchiosa coscienza occidentale. E lo fa con garbo, con delicatezza, con lirismo anche, attraverso questa pellicola molto curata, tenue, poetica – un capolavoro del cinema nipponico – ma il cui tocco è nondimeno gelido e raccapricciante.
Il film, premio Oscar come miglior film straniero del 2009, è apparentemente imperniato sulle vicende di un giovane violoncellista, Daigo, che si ritrova a fare il lavoro del becchino, pagato profumatamente ma quanto mai disprezzato. In realtà il personaggio non è che un pretesto per mettere in scena, con lirismo e ironia, la nobile arte del Nokan[3]. E per stimolare alcune riflessioni sulla vita e sulla morte.
Il Nokanshi è appunto il praticante quest’arte tipica della tradizione giapponese che sta andando sempre più perdendosi nel corso dell’occidentalizzazione incalzante della società nipponica. Non a caso, uno dei temi principali del film è l’opposizione città-villaggio, con il ritorno di Daigo al suo villaggio d’origine e al fondo della propria storia personale, per ritrovare insieme se stesso e il senso del proprio ruolo nella comunità, la Gemeinschaft opposta alla spersonalizzante e macchinica Gesellschaft. E il percorso spirituale non può che passare per la morte, ovviamente.
Si potrebbe anzi dire, forse, che, come la cura dei morti è alla base di ogni civiltà, il modo di questa cura stabilisce evidentemente il primo discrimine tra civiltà diverse. Il rapporto che ogni civiltà ha con i propri morti ne stabilisce forse la genetica identitaria, la struttura sulla quale si costruiscono le diverse arti, i modi della società, i costumi. Certo è, nel frattempo, che il disinteresse per i propri morti è un tratto costitutivo della Gesellschaft globale e forse è spia di una globalizzazione che nel tabù della morte esorcizza l’assenza di cura tout court. La fine della civiltà, in filigrana, trasluce da questa assenza che è un riflesso dell’entropia della civiltà globale, l’appiattimento sulla non-vita tradito dallo scongiuro psicotico della morte (spia dell’ossessione per la morte).
Okuribito attraversa questa materia come un rasoio, veloce e impercettibile eppur netto e doloroso, mettendo a nudo tutta la fragilità del Man inautentico, intramato nel Gestell planetario: l’impatto, indubbiamente scabroso e sconvolgente, con la morte, giunge nel film a separare dialetticamente l’immaturo dal maturo, l’inautentico dall’autentico, il falso dal vero, la non-vita dalla vita. L’incontro con la morte impone la scelta, la scelta più autentica, tra la presa di coscienza – la cura, la presa in carico della propria esistenza – e la comodità del si, l’inautenticità dell’affaccendarsi quotidiano. È una vera e propria crisi quella che il film mette in scena, ciò che è l’avvio di un percorso spirituale: incipit di un impianto narrativo da Bildungsroman tutto orientale.
(Chi è dunque l’avviatore, verrebbe da chiedersi: il buon Nokanshi o il defunto? A questo punto, sì, vale la specularità geistlich col fantasma che dà l’avvio, contemporaneamente, a colui che lo avvia nell’ultimo viaggio: Okuribito, dunque, è a un tempo “colui che avvia” e l’avviato, il viandante e la sua ombra – o il suo fantasma.)

In giapponese, quando un’arte o una tecnica diventa occasione di crescita spirituale e di sviluppo esistenziale, la si passa ad indicare con il termine Do: nella fattispecie si potrebbe coniare l’espressione Nokando, per distinguere l’arte praticata da Daigo dal normale, quotidiano, lavoro del becchino (l’ultima scena sottolinea proprio questa differenza, quando il protagonista, inorridito dalla rozzezza e dall’insensibilità dei becchini che depongono il corpo di suo padre nella bara, li scaccia indignato). Il Do (o più correttamente Dō, 道) è letteralmente la “via”, indicando con ciò un’arte che viene seguita in maniera non utilitaristica per la propria crescita personale (e in ultimo transpersonale). Ha un significato peculiare specialmente nelle arti marziali, dove indica il passaggio da un pacchetto di tecniche per l’addestramento militare ad un’arte marziale integrale, con un forte taglio spirituale, una filosofia (il più delle volte legata al buddismo zen) e dunque un’etica (il Budo dei samurai, per intenderci). Da un punto di vista prettamente tecnico, tuttavia, il Do indica anche il perfezionamento di una tecnica guida, che funga da chiave di accesso onnicomprensiva all’arte marziale in generale: quindi nel Kendo (“la via della spada”) si perfezionerà l’arte della spada e la si userà in ogni occasione, trattando ogni altra arma come se fosse la spada; ma nello Shodo, l’arte della calligrafia, sarà il pennello a fungere da chiave, sostituendo la spada. Il Do quindi conduce fuori dall’ambito specifico (l’arte marziale o la scrittura etc.) per divenire una via di accesso al mondo: ogni Do ha la pretesa di essere una “via maestra”, in grado di riassorbire entro di sé ogni altra strada, per giungere alla meta di ogni percorso spirituale (l’illuminazione dello zen). Significativamente, una via vale l’altra, alla fine: l’importante è perseguire la propria via fino in fondo. Il Kyudo o la manutenzione della motocicletta vanno altrettanto bene[4]. Tutte le strade portano a Roma, in fondo: il Do, in fondo, è sempre lo stesso. A cambiare sono le forme, le tecniche: l’arte di comporre i fiori, la cerimonia del tè, il Budo, sono un’unica e medesima via, perché unica e medesima è la meta[5].
«Alla mia morte, dal fumo conoscerai il mio amore, tenuto nascosto nel mio cuore»[6]. È questo, in fondo, il senso ultimo del film: come l’Hagakure, Departures avvia una riflessione sulla vita e sulla morte a partire da una prospettiva particolare – il Bushido nel primo caso, il Nokanshido (se è possibile usare questo termine) nel secondo. Il Do, in fondo, non è che questa pratica della morte, ovvero in termini heideggeriani diremmo un “vivere per la morte”.«Io ho scoperto che la Via del Samurai [Bushido] è morire»[7].
Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki) e il maestro Sasaki (Tsutomu Yamazaki).
Bene, a questo punto occorrerà fare una digressione per chiarire meglio quel che qui è in gioco, cogliendo così l’occasione per fare la seconda considerazione di carattere geisterphilosophich. Il vivere per la morte heideggeriano non ha nulla a che vedere col memento mori della tradizione cattolica, né il Bushido di Tsunetomo ha qualcosa a che fare con quel pseudo-bushido da kamikaze della Seconda Guerra Mondiale (certo, la strumentalizzazione dell’Hagakure in chiave militarista è resa possibile dall’Hagakure stesso, almeno nella misura in cui il protonazismo di Nietzsche è una possibile deriva della sua Volontà di Potenza – e il filonazismo di Heidegger è reso possibile dalla sua analitica esistenziale: tuttavia in ognuna di queste circostanze si tratta di un impoverimento della dottrina stessa e in quanto tale di una forzatura – si tratta in fondo di derive, per quanto possibili, delle dottrine dette). «L’Hagakure suggerisce di meditare ogni giorno sulla morte, anzi ogni momento, in sintonia con il respiro, e di essere pronti, sempre, a morire. Non significa guardare alla vita con pessimismo, ma piuttosto trovare la gioia della vita, che si può dedicare agli altri perché liberi da ogni paura condizionante»[8]. D’accordo, queste parole un po’ buoniste di Soletta rischiano di mancare il bersaglio per carenza di energia; ma rendono molto bene la posta in palio in tutta questa faccenda. E intanto, offrono la possibilità di dire cosa la Geisterphilosophie non è: la Geisterphilosophie non è un’estetica del lugubre o del macabro e men che meno una filosofia pessimista. La Geisterphilosophie non ha alcun gusto della morte. La Geisterphilosophie mira piuttosto alla vita: è una filosofia della felicità, della pienezza, se si vuole della Potenza. Interpella la non-morte (il Fantasma del Reale) per render giustizia alla morte e liberare la vita dalla non-vita, dando degna sepoltura al Cadavere del Reale (cosa reclama il fantasma, in fondo, se non la propria liberazione?). È Redenzione.
Bene, andiamo al sodo: cosa ammala la vita?, si chiede Nietzsche. Cosa la indebolisce? Un organismo malato si richiude su se stesso, si concentra in sé, per non disperdere le forze. Il nichilismo della debolezza non è che questa contrazione in sé, questo leccarsi le ferite – un tentativo di sviticchiarsi dalla vita. La malattia è in fondo il contrario della Volontà di Potenza: crescere oltre se stessi, procreare, prodursi nel mondo, diffondersi, profondersi, infine, si direbbe, disperdersi. “Morire!”, griderebbe subito il malato: l’ego immeschinito del debole non può che vedere in questa profusione di sé un olocausto di sé, la fine di sé, la morte. Questa struttura egologica che è l’animula dell’ultimo uomo non può che identificare la vita – Volontà di Potenza – con la morte. Non gli resta dunque che scegliere la non-vita, che fa tutt’uno con la non-morte. Ecco, in pillole, un excursus genealogico del soggetto moderno[9].
A ben guardare, la chiave di volta di questo meccanismo è tutta racchiusa nella dialettica angoscia-paura dell’analitica esistenziale heideggeriana: l’angoscia è la paura vuota, priva cioè di un contenuto specifico, è l’affacciarsi sul vuoto esistenziale della vita, sull’infondatezza della vita, dunque è un farsi carico della morte – un vivere per la morte che coincide con la scelta autentica. Di contro la paura: la paura si attacca a un oggetto, potenzialmente ad ogni oggetto che metta a rischio l’integrità del soggetto, o meglio che metta a rischio l’integrità della struttura egologica del Man nel suo affaccendarsi quotidiano (versione inautentica della Cura cui mette mano l’angoscia)[10].


Allo stesso modo, l’Hagakure non fa che indicare, nel Bushido, la via del superamento dell’ego: «ogni soluzione che proviene dall’egoismo è cattiva. È difficile per ogni essere umano rinunziare al proprio io, tuttavia, davanti alle difficoltà basterà sopprimere il proprio egoismo e ricordare di cuore i quattro voti per non fare dei grandi sbagli»[11]. In ultima istanza, si potrebbe dire, l’ego non è che il prodotto della malattia, il sintomo esteriore di una malattia che indebolisce costringendo ad un raccoglimento e ad una contrazione individuante – e dunque individualizzante – proprio come il dolore al piede ci costringe ad una continua concentrazione di tutto il nostro essere sulla parte dolente (la lingua batte dove il dente duole, no?). L’ego è un’ossessione. È l’ossessione della paura. Paura di che? – della morte. Dice ancora l’Hagakure: «La parola “codardia” si scrive con due ideogrammi, quello di “mente” e quello di “pensare”, che insieme significano “discriminare”. Quando la discriminazione si impadronisce della mente, si prende la malattia della codardia. Può trovarsi ancora coraggio nella mente di un samurai posseduto dalla discriminazione?»[12]. L’ego è un altro nome di questa malattia: la codardia che discrimina, separando l’io dal resto del mondo, separando la vita dalla morte, la meschinità della preoccupazione per la propria singola esistenza. Sopravvivenza – ovvero non-vita.
Ogni Via, ogni Do, passa per questa presa di coscienza. Ogni Do è una ed una medesima via per il superamento di questa malattia, per la guarigione dalla malattia dell’ego. La pratica costante della disciplina – qualunque essa sia, fosse anche l’arte di fare polpette – ottiene come effetto la negazione di sé (abnegazione) e dunque il superamento dell’io. Ogni Via è in fondo un morire.
Ogni Via è in fondo quell’“attaccamento ostinato” che Lacan chiama magnitudo negativa, «un oggetto che nella sua presenza concreta agisce da sostituto del vuoto del Nulla (o dell’abisso della Cosa impossibile)», come riassume Žižek[13].
Si vede bene, qui, in quali pastoie conduce questa riflessione. Significativamente, però, pare davvero che tutte le strade portino a Roma. Žižek giunge qui ad una stessa conclusione, partendo da una prospettiva radicalmente opposta: egli tenta infatti di riscattare il Soggetto. Per questo ha la necessità di ribaltare la prospettiva Nietzsche, intesa qui come la strada che, aperta da Nietzsche, passa per Heidegger, Foucault e giunge a quelle forme di «oscurantismo» new age e orientaleggianti (ancora una volta, l’asiatismo sembra essere il terrore di quanti difendono lo storicismo di matrice hegeliana e marxista) che vedono nel soggetto cartesiano il male dei mali (cioè la posizione assunta qui). Evidentemente, questa riflessione va sviluppata interamente in altra sede. Tuttavia, varrebbe la pena fare alcune brevi annotazioni in proposito: mettendo da parte il sospetto che nel ragionamento di Žižek vi sia un vizio di forma dovuto al presupporre ciò che si vuol dimostrare, quel che preme sottolineare qui è che, almeno a questo livello della trattazione, il tentativo di riabilitazione del soggetto passa necessariamente per una negazione delle funzioni del soggetto criticate (nella fattispecie) da Nietzsche, Heidegger, Foucault. Quando ad esempio Žižek afferma che «come Foucault, Hegel insiste nel collegare strettamente la disciplina e la soggettivazione [con la differenza che] il soggetto prodotto dalle pratiche disciplinari non è “l’anima come prigione del corpo”, ma […] proprio un soggetto senz’anima, un soggetto privato della profondità della propria “anima”»[16], non sta facendo altro che tradurre Hegel in Foucault (e che cos’è poi quella «profondità della propria “anima”» se non corpo, Volontà di Potenza, etc.?), e non a caso esclama: «Il nucleo del ragionamento di Hegel è dunque l’esatto opposto di quello che generalmente si pensa che sia»[17] (tanto varrebbe affermare, a questo punto, “il soggetto di Hegel non è un soggetto”). Così pure quando tenta di ribaltare Nietzsche per mezzo di Freud e Lacan, Žižek non fa che ricondurre Freud e Lacan a Nietzsche. Insomma, se si tratta di riabilitare il soggetto desoggettivizzandolo, sia pure riabilitato. Ma il rischio è che si giunga a chiamare ogni cosa col suo opposto: la «struttura formale del riferimento al Nulla» non è forse la Volontà di Potenza che qui abbiamo fatto valere contro la struttura egologica del soggetto malato (o meglio contro la malattia egotica del soggetto)? Non si deve comunque, in ogni caso – anche a voler salvare il soggetto – superare il soggetto?
A ciò vale questa digressione tecnica, che potrà sembrare quanto mai scabrosa: è ad ogni modo necessario mettere in chiaro di cosa stiamo trattando, qui, a meno che non vogliamo limitarci a leggere The Departures come un film delicato e ironico sulla difficile scelta di fare il becchino.
Già, Departures. Vediamo se la strumentazione tecnica che ci siamo procurati per mezzo della Geisterphilosophie ci offra la possibilità di ascoltare ciò che il film ha da dirci. Il fatto che il film voglia trattare di una sorta di Nokanshido è reso esplicito dalla graduale acquisizione di consapevolezza di Daigo per il quale la crisi aperta dallo scioglimento dell’orchestra presso la quale lavorava a Tokyo rappresenta l’infrangersi dell’illusione narcisistica che lo costringe ad avviare un percorso interiore. Si noti come la vita della coppia, e di Daigo in particolare, a Tokyo scorre in maniera assolutamente cieca e inautentica ruotando inerte attorno all’ossessione egocentrica della “realizzazione di sé”, del “diventare qualcuno”. I due piccioncini sono, da bravi cittadini della Gesellschaft, completamente incapaci anche di aver a che fare con un polpo fresco, incapaci di gestire quella che si presenta come una situazione di confine tra la vita e la morte (del polpo, s’intende). Il ritorno nel villaggio d’origine di Daigo coincide con la morte di sé, ovvero con la soppressione del proprio ego – ciò che passa inevitabilmente con la presa di coscienza della morte, con la cura per la morte. Alla fine Daigo sceglie: intraprende la propria Via, il Nokan, a rischio di perdere tutto – amicizia, stima di sé, amore. E che quella sia proprio la propria Via è sottolineato in continuazione, nel film, dal maestro che vede nel suo arrivo un segno del destino: Daigo è destinato ed essere un Nokanshi – cioè la sua Via è proprio e solo il Nokanshido. Daigo, alla fine, non perde nulla, anzi riguadagna tutto – amicizia, amore, stima di sé – ad un livello superiore, cioè ad un livello di consapevolezza superiore: dopo la crisi dell’epoché accede finalmente all’autenticità che, suggerisce il film, coincide con un pieno e totale “sì alla vita”. (Significativamente, proprio il lavoro scabroso del Nokanshi conduce Daigo ad acquistare quell’appetito da buongustaio che caratterizza il suo maestro, ad assaporare finalmente i cibi, ad assaporare appieno la vita.) Fino al ritrovamento del padre nella sepoltura della salma (e alla liberazione dall’ossessione del fantasma): «Alla mia morte, dal fumo conoscerai il mio amore, tenuto nascosto nel mio cuore». In quel momento, anche la moglie gli riconosce finalmente il titolo di Nokanshi, accettandolo definitivamente per quello che è.
Ecco il punto: cos’è quel qualcosa che è? Un soggetto? Una persona? Un fantasma? È una domanda che rimane fondamentalmente sospesa – questa sospensione è del resto il quid della Geisterphilosophie. È un vuoto, questo senz’altro, sul quale si condensa il ki. «Alla mia morte, dal fumo conoscerai il mio amore, tenuto nascosto nel mio cuore».




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[1] N. Aspesi, Il viaggio dell’addio con dignità e bellezza, “La Repubblica”, 10/4/2010.
[2] A questo punto risulta chiaro che la Geisterphilosophie dovrà occuparsi sempre più dei fenomeni ottici e interpellare ontologicamente la natura ambigua della luce in particolare: questo doppelgänger spettrale per eccellenza, chimera divina ondulatorio-corpuscolare, quintessenza illusoria del gran teatro del mondo.
[3] Francamente non si riesce a capire perché le traduzioni italiane dei titoli debbano sempre essere così povere. Addirittura, in questo caso, si traduce dal giapponese con il titolo inglese, che tra l’altro è l’esatto opposto del titolo originale: Okuribito vuol dire infatti “colui che avvia”, il becchino, insomma, che dispone nella bara il corpo del defunto per avviarlo all’ultimo viaggio. I Departures sono ovviamente i defunti (che in italiano suonerebbe più immediatamente come “i dipartiti”, perdendo però il senso equivoco del rimando alle “partenze” aeroportuali), il che punta sull’equivoco dell’agenzia di pompe funebri che, nel film, ha il nome di un’agenzia di viaggi, ma che perde completamente lo spirito espresso dal titolo originale che funge da chiave di lettura: il film, infatti, ha di mira la vita, in opposizione alla non-vita, ciò che evidentemente agli Italiani sembra impossibile da comprendere, tutti presi dalla paura superstiziosa della morte (che nel titolo inglese gioca evidentemente con un subitaneo senso di equivoca opposizione alla non-morte). I Tedeschi, da sempre noti orientalisti, hanno invece fatto valere tutto l’interesse che il loro pubblico ha per il tecnicismo esotico, traducendo giustamente con Nokan. Die Kunst des Ausklangs: “der Ausklang” vuol dire infatti “conclusione”, “finale”, “epilogo”, il che è particolarmente azzeccato in quanto è un’espressione che si usa anche in musica, per cui potrebbe suonare come “l’arte del finale” (evidente filo conduttore del film, nel quale la vita viene riflessa nella musica di Diago).
[4] Si fa qui ovviamente riferimento a due classici della diffusione dello zen in Occidente: E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, trad. it. di G. Bemporad, Milano, Adelphi, 1975; e R.M. Pirsig, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, trad. it. di D. Vezzoli, Milano, Adelphi, 1981.
[5] Questa è in fin dei conti la posizione del taoismo: il Tao (o Dao, secondo la traslitterazione pinyin) è il Do cinese (l’ideogramma, un kanji, è lo stesso in cinese e in giapponese). Anziché perseguire diverse tecniche e diverse leggi, i fondatori del taoismo miravano direttamente all’unico vero Tao, che è fondamentalmente innominabile («Il Tao che può essere detto non è il vero Tao», secondo l’incipit del Tao Te Ching di Laozi). Il buddismo zen, di derivazione cinese (buddismo chan), unifica appunto la dottrina del Buddha con il taoismo, proprio nel tentativo di giungere al cuore del buddismo originario (per una panoramica generale cfr. il fondamentale A. Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. I, trad. it. di A. Crisma, Torino, Einaudi, 2000).
[6] Y. Tsunetomo, Hagakure. Il Codice Segreto dei Samurai, trad. it. L. Soletta, Torino, Einaudi, 2001, 2 [33], p. 84.
[7] Ivi, 1 [2], p. 11.
[8] L. Soletta, introduzione a Y. Tsunetomo, op. cit., p. XVIII.
[9] Per quanto qui è condensato un po’ tutto il pensiero nietzscheano – nella misura in cui sia possibile una simile operazione –, vale la pena almeno citare la Genealogia della morale, trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1984, che è fondamentale per comprendere appunto la “diagnosi” nietzscheana del nichilismo europeo come malattia.
[10] Come nel caso di Nietzsche, si dà qui a titolo del tutto introduttivo il riferimento a M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, almeno per chiarire l’analitica esistenziale di cui qui si sta trattando.
[11] Y. Tsunetomo, op. cit., 1 [4], p. 12.
[12] Ivi, 10 [86], pp. 162 s.
[13] S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, ed. it. a cura di D. Cantone e L. Chiesa, Milano, R. Cortina, 2003, p. 136.
[14] Ivi, p. 134.
[15] Ivi, p. 137.
[16] Ivi, p. 133.
[17] Ibid.

Diego Rossi

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