venerdì 13 maggio 2011

Pa-ra-da


Pa-ra-da, di M. Pontecorvo, colore, 100 min., Italia 2008.


I confini, i limiti sono luoghi dell’esistenza, tracciati dell’immaginazione, che protegge e rassicura dalla mancanza di figurazione, dall’assoluto dello sconfinato che lo sguardo non può abbracciare. “Al limite”, si dice quando si vuole disegnare la lunghezza del raggio che definisce lo spazio di ciò che si avverte come possibile per sé, descrivibile dalle parole che si conoscono, che si è capaci di pronunciare e di comporre, per raccontare mondi che si sognano o si progettano. Prima del limite puntuale o di quello che tende all’infinito tutto è possibile poiché dicibile, dopo lo sconfinamento il senso si perde, le direzioni si moltiplicano e confondono, l’inversione, la distruzione, l’annullamento, la scomparsa... tutto il possibile non è dicibile e ciò che è immaginabile è sempre dentro un corpo di parole. Il limite oltre il limite non si pensa mai, se non appiattendo il primo sul secondo, retrocedendo dall’orizzonte che nasconde al confine che si sente. Il confine, nel senso di quell’in between space di cui scrive Homi Bhabha, diventa spesso un luogo di elaborazione di violenza perché, nel tentativo di espandere il dicibile, il visibile aggredisce l’invisibile che trama l’esistenza.
La non-vita, gioca con la vita. L’una inganna l’altra, la contamina e la svuota per metterla sempre, ancora una volta al cospetto della domanda di senso, per interrogarla sull’intensità o l’assenza del sentire, per chiederle di prender forma, di definirsi. E’ come il gioco di un mimo davanti ad un labirinto di specchi.


Pa-ra-da è un’immagine che rende visibile un certo momento del flusso del tempo di una storia. Non c’è narrazione né degli antefatti, né del prosieguo degli avvenimenti che la sequenza di fotogrammi che si è deciso di comporre mostra nelle riprese concitate della mdp e nell’uso addolcente del teleobiettivo con cui si definisce una lunga galleria di ritratti dolorosi: quelli dei bambini abbandonati dagli occhi zingari e gonfi e quelli del clown Miloud, matto di strada, sputafuoco gitano mezzosangue, figlio e amante traditore. Solo allusioni e speranza. Siamo sul confine, nel punto in cui avviene la rivoluzione che lascia sospesi, come nel momento in cui l’artista al trapezio lascia la presa e fa la capriola. In quell’attimo si è tra vita e morte, l’emozione si concentra nel silenzio e il corpo deve diventare tutt’uno con l’istante. Nessuna paura. Esserci da vivi, vivere perché si sceglie di esserci.
La narrazione non passa attraverso le immagini, è insufficiente, piena di afasie, poco densa. Ostacolo per il vampiro assetato di sangue, che dal cuore trafitto del bosco della Transilvania diffonde la sua voce di tenebra per tutta la Romania e oltre, al di là dei confini della sua terra, reclamando le emozioni e le passioni degli altri, dei vivi, nelle cui vene il liquido caldo che accende il corpo, scorre ancora e spande il profumo prezioso e diamantino della vita.
Di questa storia, storia vera fino al limite della finzione, storia di un clown franco-algerino dai trampoli magici e  il naso ciliegia fumoso di sigarette e dei bambini di strada che decidono di seguirlo facendo evoluzioni al suono della sua fisarmonica, non si dice ciò che non è ascoltabile. È una storia in mostra, lo sguardo di un viaggiatore che scatta ricordi da conservare nell’album di una pellicola. La sintassi che regola le frasi tradisce i fatti per trasformarsi in tecnica di comunicazione dei fantasmi di rivoluzioni, leggi e propagande.

Non morti nati da non vivi/e
La storia di Parada inizia nel 1966, scritta in controluce tra le righe del Decreto 770, che il Conducător  emana per reperire forza-lavoro, giovani braccia indigene a cui affidare il compito di potenziare la nazione e rendere il Paese Padre prolifico e accudente e le donne macchine per figli, non per forza amanti amorose innamorate di frutti d’amore benedetti, ma corpi produttivi ed ubbidienti, seducenti per il potere, che le ricompensa come può, rendendole prostitute. Il Decreto 770 mette al bando l’aborto e riduce drasticamente la possibilità di utilizzo di contraccettivi. Solo le donne oltre i 45 anni e quelle divenute già madri di 4 (e poi di 5) bambini possono abortire legalmente, le altre lo faranno in modo illegale, ricorrendo a pratiche clandestine spesso mortali.
Per rimediare al forte calo di nascite e all’altissimo numero di aborti registrati durante il governo che lo aveva preceduto il Geniul din Carpati affianca al Decreto 770, incentivi per la natalità: benefit, bonus e medaglie per donne prolifiche, sovratasse per giovani corpi non produttivi. “Madri eroine” imposte per legge, mogli per forza di uomini da cui, dopo il Decreto 799 del 1966, che rende più difficoltosi i divorzi, è sempre più difficile liberarsi e anche essere abbandonate. Ceauşescu cerca di rendere il suo Paese più solido, compatto e resistente al vento sabbioso e potente che soffia da Occidente. Il gigante si erge calpestando morte e dolore. In pochi anni nascono milioni di bambini e muoiono migliaia di donne. Le pratiche clandestine a cui si sottopongono nei luoghi più impensati per abortire, nascondono miseria, dolore, solitudine. La stessa che sentono quelle che invece i figli decidono di farli nascere, anche se poi sono costrette ad abbandonarli in uno degli orfanotrofi del Paese, in uno degli istituti statali disposti dalla legge 3 del 1970, pronti ad accogliere minori indesiderati e figli della povertà. Leaganscase de copiigradiniţe, istituti educativi e di formazione professionale: lo Stato predispone una vasta gamma di strutture per accogliere i ceauseii, i figli del Decreto frutto della pianificazione centrale, centrata sulla capacità riproduttiva femminile. Luoghi fatiscenti, carceri da cui si tenta la fuga, per non impazzire.
Ma la legge non basta. Le si affianca la scienza serva del potere, che motiva la propaganda, ammantando l’aborto dei veli del peccato, dell’immoralità, della vergogna. Le politiche demografiche del regime sanno di incenso e sangue. La non-vita uccide la vita.
Nel 2007 Cristian Mungiu nel suo “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” racconta una storia di aborto negli anni della Romania di Ceauşescu, quando, dice, “l'aborto aveva perduto ogni connotato morale e veniva percepito come un atto di ribellione e di resistenza contro il regime. Perché i figli delle donne non sposate venivano sottratti alle madri per essere educati secondo le regole del comunismo”. Per Olita e Gabita l’aborto, come lo è stato per tante donne in Romania anche dopo la sua legalizzazione nel 1989, è una forma di contraccezione, pericolosa, umiliante, sofferta, ma necessaria.
Per le strade, sottoterra nei grandi canali putridi in cui passano i tubi di riscaldamento della città, si affollano bambini abbandonati dalla vita, persi, in fuga. Ladri, prostitute, fonti di guadagno per la malavita organizzata, corpi abusati, drogati, feticizzati, lividi, sporchi. Bambini violenti, bambine madri. Fantasmi che si aggirano tra la gente. Vita che sfida la non vita.
Le adozioni internazionali che si attivano dopo la rivoluzione del 1989, quando l’opinione pubblica viene a conoscenza dei bambini e delle bambine abbandonate di Bucarest, non bastano a rimediare alla beanza del Paese, preda di traffici illeciti e agenzie fantasma, che rendono la vita abbandonata commercio e rendita. Nel 2001 il governo decide di tenersi i figli abbandonati e di bloccare le adozioni internazionali.
Nel 2005 la Tv rumena racconta finalmente la loro storia, testimoniata nelle sequenze del documentario di Florin Lepan “Nati a comando. I figli del decreto”.
Non vivo cerca vita?
Il clown Miloud-Jalij arriva a Bucarest e incontra i boskettari. La vita lo aggredisce, la sua strada cambia. Parigi, la famiglia, la petite copine de Paris, diventano ricordi lontani. “Ci sono posti in cui ti senti più vivo, diverso – dice –. E questo è uno di quei posti.” Non-morto, non-vivo? Vampiro che ha bisogno di vita?
Pontecorvo, che mostra la nascita e l’inizio della storia di Pa-ra-da, non si occupa molto di Miloud. Figura triste dello spleen occidentale, artista di strada, fumatore solitario, clown emigrato, architetto dell’invisibile. Pontecorvo racconta invece le dinamiche del cambiamento che interessa i bambini abbandonati, almeno quelli che vivono nel canale vicino alla stazione e noi, spettatori, vediamo più che sentire. E’ la sintassi delle immagini che compone l’occhio del direttore di fotografia.
Di Miloud sappiamo che vuole partire da Parigi perchè subisce il fascino della forza del sogno di un cambiamento preannunciato dalla rivoluzione in Romania. Miloud ha negli occhi le immagini della ribellione: la gente per strada, gli slogan per la libertà, l’esposizione dei corpi al rischio della morte in cambio della vita vera. Non sa che la piazza davanti all’università di Bucarest si è già svuotata e la desolazione ha preso il sopravvento sulla speranza nelle case e per le strade della città dei bambini abbandonati.
Quando arriva a Bucarest Miloud molta vita non la vede, ne’ la sente. Un po’ ingenuo, un po’ cieco, il clown non pensa che molte cose di cui ha sentito parlare in tv, nella realtà siano “proprio così”, come le vede con i suoi occhi. Quando dice il suo disagio infastidito di fronte alla realtà di strada di un Paese postrivoluzionario, “E come credevi che fosse?”, gli chiedono, e lui non sa cosa dire. E’ l’inizio di un esercizio: quello di uno sguardo nuovo, un po’ strabico forse, sul mondo.
La tabella di marcia del tour del clown, allora, non può che subire un detour: Miloud decide di restare a Bucarest ancora un po’. Ed ecco, si immerge nella vita e deve regolare la quantità di ossigeno che ha nei polmoni, deve allargare lo spazio delle sue rappresentazioni e sensazioni. All’inizio sta male, non riesce a sopportare la puzza che sente quando dorme con i boskettari, quando assiste alla violenza, quotidiana, naturale, di sempre. Quando torna a casa Miloud deve lavarsi, cambiarsi, detergersi dal dolore, liberarsi da quell’eccesso di vita che nel suo rapporto claustrofobico col mondo diventa energia negativa, mancanza di respiro, presenza dolorosa di corpi, di carne, di sogni.
Il clown vorrebbe che i bambini abbandonati iniziassero a rispettare se stessi: “rispetto! rispetto!” gli urla e loro, poi, quando i tempi saranno più maturi e meno drogati di colla, decideranno di fargli da eco. “Egocentrico!”, gli dice qualcuno. Lui, potente, continua a fare arrabbiare il potere, i poteri.
La vita che ha intorno lo provoca. Lui si fa coinvolgere e decide di esporsi al cambiamento, alla responsabilità, al dovere di guida che assume chi insegna, chi forma, chi trasmette saperi attraverso e nonostante se stesso/a. Tra l’altro, veniamo a sapere, e registriamo da spettatori/trici curiose, Miloud non fa sesso, fa l’amore, ma anche l’amore vuole le sue tecniche e sono queste che gli vengono richieste: tecniche d’amore per tutte le età. Blandizia del comune, della condivisione leggera, dell’intrattenimento!
Miloud potrebbe essere un vampiro. La pelle chiara, il cappotto lungo e nero, cammina col collo incassato nelle spalle… un Nosferatu franco-algerino, ma meno affascinante, poiché  privo del potere che conferisce il mantello del male se portato con orgoglio e dignità, a testa alta e con la pelle cadaverica che risplende di morte fresca.
La sua è una scommessa: deve tirar fuori dal sottosuolo di quella città così grigia, i bambini abbandonati che ha conosciuto, quelli con cui ha creato un legame. Non sa come fare, ma deve riuscirci. Delirio soteriologico. Follia! Ma chi si crede di essere? Chi guarda diventa diffidente: “sarebbe bello se fosse vero!”. Il problema è che lo è. E’ vero! Esiste un certo Miloud che ha creato un piccolo circo nomade con alcuni bambini abbandonati di Bucarest. La compagnia esiste ancora, va in giro per l’Europa. Il clown a volte va anche in onda sulle televisioni italiane a raccontare la storia di Pa-ra-da e a chiedere aiuto a chi può e vuole darlo.
Il limite, la cattura, l’anestesia, l’inadeguatezza, l’infelicità. Vita, non-vita? Eredità del sorriso triste di un clown.

Giovanna Callegari

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