giovedì 14 marzo 2013

Considerazioni a latere - La solitudine dei maschi



Tony e Antonio s’incontrano, al mercato. Si guardano negli occhi. Si riconoscono. Cosa riconoscono? Cosa vedono l’uno negli occhi dell’altro? La scena è archetipica, ricorda l’incontro tra le due autocoscienze di Hegel. Le autocoscienze, nella Fenomenologia dello spirito, si vedono, si riconoscono, lottano per il riconoscimento ― per l’autoaffermazione. Maschilismo e violenza. L’autoaffermazione si basa sul riconoscimento dell’altro. Sull’affermazione della propria libertà assoluta di fronte alla morte. Chi teme per la propria morte, cede libertà, si sottomette all’altro. Riconosce l’altro come signore.
Nella scena archetipica di Sorrentino, invece, non c’è lotta tra le due autocoscienze. Si riconoscono ― immediatamente. Da sempre. Eppure, anche qui, c’è la lotta per l’autoaffermazione. E finisce in violenza. In entrambi i casi. Uno si uccide. L’altro uccide. Entrambi lo fanno nel riconoscimento reciproco. Come atto di questo riconoscimento. Riconoscimento di sé. Autoaffermazione, che sfocia in un epilogo tragico perché il riconoscimento avvenuto è un atto mancato. È strozzato nel pianto. È un telefono che squilla a vuoto. È un incontro mancato ― un rispecchiarsi reciproco, un dialogo, che avviene in differita, una pubblica confessione che non trova alcun interlocutore. Cade nel vuoto: nel film, come nello spettatore.
Siamo così abituati a vedere il maschio come soggetto attivo della storia, da non renderci nemmeno lontanamente conto di quanto possa essere, esso stesso, vittima della storia. Mi rivolgo ai maschi. Le donne, del pari, sono così invischiate nella trama dei generi da non poter concepire altro maschio che un soggetto attivo. E così ci perdiamo, entrambi, l’occasione di ascoltare. Di ascoltare la voce di quell’appello, strozzato nel pianto, nel silenzio di un incontro mancato. Siamo così impreparati, noi maschi, sono così conniventi, le donne, di fronte a questo fantasma, da volerlo immediatamente esorcizzare, fino al punto di farne il processo e condannarlo: è un perdente, Antonio Pisapia, perché si uccide, perché è fissato col calcio e col successo, perché non dice nulla alla moglie che lo abbandona, perché, anziché trovarsi un lavoro, si mette a giocare col subbuteo ― coi soldatini! È un immaturo, incapace di adeguarsi alla società, un bambino che non sa affrontare la vita. E così la violenza che lo uccide è quella stessa violenza che sta nella condanna che noi spettatori gli comminiamo. Involontariamente, certo. Nondimeno con atroce cinismo. Alla fine, ad uccidere Antonio Pisapia, è lo stesso pubblico, colpevole di incarnare, ognuno/a nella propria pelle, la società che lo ha ucciso. Perché, sì, siamo noi quella società. E ci perdiamo l’occasione di ascoltare la voce di quel fantasma ― per pigrizia, forse, più che per violenza. Il che è ancor più cinico e colpevole.
Accuso. Accuso uomini e donne. Accuso nel patire.
Accuso gli uomini perché non si danno la possibilità di ascoltare quella voce, la voce del proprio stesso fantasma, il grido soffocato nel pianto. Li accuso perché preferiscono essere vittime, nella violenza, piuttosto che riconoscersi come assoggettati. Pur di mantenere la parvenza di essere soggetti attivi, preferiscono strozzare nella rabbia e nella violenza la propria incapacità. Li accuso perché, anziché riconoscersi, non hanno altre vie che assoggettarsi o assoggettare. Servo‒padrone. Uccidere o uccidersi. La loro libertà è solo violenza ― “e voi non sapete manco che cazzo significa”.
Accuso, del pari, le donne. Perché sono così compiaciute della loro superiore consapevolezza da non rendersi minimamente conto della violenza che loro stesse fanno e che perpetrano. Perché non sanno fare di meglio che invitare gli uomini a parlare, come le donne, dei loro problemi. Perché non sanno fare di meglio che condannare i maschi per la loro infantile ricerca di sé. Le accuso perché condannano il maschio al silenzio, intimandogli di agire da soggetto attivo, di andare a cercarsi un lavoro, di fare qualcosa per salvare il rapporto. Fare qualcosa ― qualunque cosa, mi chiedo? Anche uccidere? Lamentano la violenza del maschio ma costantemente lo incitano all’atto. E difficilmente l’atto può essere non violento. Sono così abituate al loro ruolo di soggetto passivo, da sfruttarlo sempre a meraviglia per far agire il maschio, addossando a lui ogni responsabilità.
E così, è colpa di Antonio Pisapia se la moglie lo tradisce e lo abbandona. “Perché, anziché giocare col subbuteo, non le dice qualcosa? Perché non fa niente?”. È colpa di Tony Pisapia se non va al funerale del padre e se la madre lo aveva bandito da casa («e a te subito è andata bene») ― così come è colpa sua se una sedicenne si infila nel suo letto (anzi, nel letto della figlia).
Accuso maschi e femmine, insieme, perché richiudono immediatamente e, anche, spasmodicamente, lo spazio di un possibile ascolto. Silenziando, di fatto, la voce di un uomo che tenta disperatamente di trovare il giusto equilibrio tra due violenze (entrambe compiute e subite contemporaneamente). Le femmine, giudicando. I maschi, al solito, negando.
Quello che veramente tace, in tutto questo, è la totale assenza di amore. I maschi sono soli. Nel film, come nella realtà. I due Pisapia sono, ognuno a suo modo, circondati da un puro deserto affettivo. E, si dice, è colpa loro. Come se questo bastasse a spiegare una simile assenza. L’assenza d’amore, intanto, è la scaturigine dell’isolamento. Le “conseguenze dell’amore”, invece, producono rivoluzione. La rivoluzione è un atto d’amore. È evento. Come l’amore. Dove non c’è amore, non succede niente, come nella vita di Titta Di Girolamo (Le conseguenze dell’amore). Come nella vita di Antonio Pisapia. («“Antò, nella stronza vita può succedere di tutto” ― “Sarà… ma a me non succede mai niente”».) Nella realtà, i maschi sono soli perché l’amore, quando c’è, è incanalato nel reciproco possesso. Sono soli perché, all’intimazione a parlare (“a fare qualcosa”), corrisponde la totale mancanza d’ascolto. (Perché, mi chiedo, anziché attendere che Antonio smettesse di giocare col subbuteo e cercasse di fare qualcosa per salvare il rapporto, la moglie non ha cercato di ascoltare quel bisogno espresso dal marito nel subbuteo? Perché ci si aspetta che a salvare il rapporto sia Antonio e non la moglie?) Corrisponde la totale assenza di una corrispondenza. Corrisponde l’alienazione rispetto al maschilismo, al quale l’uomo vorrebbe sottrarsi, e al femminismo, che parla un’altra lingua. (Antonio è colpevole di onestà: non vuol sottomettersi alle regole del gioco maschilista, cioè realistico e cinico, e finisce con l’essere considerato, da tutti/e, un idealista sognatore, triste e ingenuo.)
È un peccato, perdere l’occasione di ascoltare questa denuncia silenziosa. Perdere l’occasione di ascoltare, davvero, il disagio del maschio. Non prendiamoci in giro: il problema dei maschi non è che non parlino tra di loro. Non è che non si lamentino o non piangano abbastanza. Non è che siano costretti a mostrarsi virili, perché glielo imporrebbe la morale del branco. Il vero problema dei maschi è che sono scissi. Scissi tra l’essere se stessi e l’essere maschi. Scissi tra l’essere carnefici, in quanto soggetti attivi della storia, e vittime, in quanto assoggettati alla storia. I maschi sono i fautori di una società maschilista, indubbiamente, ma ne sono anche sempre le prime vittime. Siamo alieni a noi stessi.
Ai maschi non viene data scelta. Per questo amano ― desiderano su tutto ― la libertà. Per questo, quando ne diventano consapevoli, la possono trovare anche in un carcere, come nella scena finale del film. Ai maschi non viene data scelta, non già perché la società impone ruoli: la società attraversa le persone che la compongono. Cambia col cambiare delle persone. Ai maschi non viene data scelta, perché sono soggetti. E l’essere soggetti è una condizione di duplicità: soggetto in quanto persona autonoma e responsabile, soggetto in quanto suddito sottomesso alla legge. Servo e signore. Antonio e Tony.
Qui sta il riconoscimento ― mancato ― del doppio soggetto di questo film. La questione di genere, propriamente, maschile. Ridurre la questione di genere maschile a quella femminile è la mia accusa nei confronti delle donne. Misconoscere lo sguardo incrociato nel doppio Pisapia, misconoscere cioè il proprio fantasma, è la mia accusa nei confronti degli uomini. In entrambi i casi, l’assenza d’ascolto reitera il vuoto della violenza.
Diego Rossi

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