venerdì 4 febbraio 2011

Shining


Shining, di S. Kubrick, colore, 146 min., USA 1980

"È lei il custode dell'albergo. È sempre stato lei..."
Delbert Grady, ex custode dell'Overlook Hotel, si esprime così nel momento in cui si rivela la sua natura fantasmatica nei confronti di Jack Torrance, interpretato da un superlativo Jack Nicholson. La luce pervade la scena, la luce di una toilette per signori dal colore rosso acceso.
E' la presenza della luce che permea le scene più inquietanti di Shining di Stanley Kubrick, film uscito nel 1980, tre anni dopo il romanzo di Stephen King cui Kubrick si è ispirato.
Shining, come già 2001: Odissea nello spazio del 1968, si presenta come la summa del genere a cui appartiene, rileggendolo però attraverso la personalissima visione del regista americano.

L’horror familiare allo specchio

Il genere è quello tradizionalmente inteso dell'orrore, ma il regista, pur inserendo quasi tutti gli stereotipi del genere riesce a reinterpretarli in maniera molto personale.
Il film narra la vicenda di un ex insegnante e scrittore in crisi che si trasferisce con la moglie, Wendy (una strepitosa Shelley Duvall) e il figlio Danny in un albergo del Colorado dove lavorerà come custode per il periodo di chiusura invernale. Un lavoro di vitale importanza per Jack che rappresenta la soluzione all’impellente necessità di guadagno e la possibilità di coniugare la sua attività di scrittore, a lungo accantonata dai fallimenti di una vita familiare e sociale.
La permanenza in un luogo chiuso, isolato, per quanto piacevole e accogliente, come deve essere un albergo, comincia ad accentuare le crepe nei rapporti umani tra i protagonisti, all'inizio apparentemente normali; vengono a galla a poco a poco tracce di una serie di avvenimenti del passato, inizia a manifestarsi l'inquietudine di un luogo che sembra avere uno spirito proprio.


Danny, il bambino, riesce a entrare per primo in contatto con le forze del luogo, grazie al suo potere, lo "Shining" appunto, tradotto in italiano come "luccicanza", ovvero la capacità di percepire presenze, pensieri, che lo tiene in contatto con una sorta di spirito guida che accompagna sempre il ragazzino, un "amico immaginario" che, come dice lo stesso Danny, è il bambino che parla nella sua bocca. Danny viene a contatto con il capo cuoco dell'hotel che ha il suo stesso potere e che lo mette in guardia contro le "presenze" dell'albergo, presenze che in effetti non sono negative in sé, ma possono indurre negatività nelle persone che già hanno una predisposizione al "male". Predisposizione che sembra avere proprio il personaggio di Jack Torrance, personaggio con un passato non proprio limpido, affetto da problemi di alcolismo (questo è molto più esplicito nel romanzo).
Vista in questi termini, la storia in effetti sembra il classico esempio di casa infestata, con i fantasmi che terrorizzano i viventi e li conducono verso il male.
Le cose in realtà sono molto più complesse.
Kubrick, per ammissione sua e della co-sceneggiatrice Diane Johnson, ha utilizzato il saggio di Freud Il Perturbante come linea guida nella stesura della sceneggiatura.
Il perturbante, ovvero l'Unheimlich, il "non familiare" che contiene la familiarità nel suo stesso termine (heimlich, relativo alla patria, alla casa), termine doppio che prefigura la fascinazione visiva del film. Due sono le sorelline che Danny per primo vede nella sala giochi dell'albergo, Danny stesso ha un alter ego in Tony; l'attuale custode ha un doppio nel custode precedente, autore degli omicidi più recenti, doppia è anche la figura femminile che Jack bacia nella stanza 237.
La specularità è un concetto chiave del film, assieme all’indagine Freudiana. Allo specchio è posto il regista rispetto al protagonista maschile, nella sua mania di perfezionismo, nella ricerca costante di isolamento, nella folle e disperata dedizione all’opera d’arte, speculare la scelta del protagonista, Jack Nicholson, dove già nell’omonimia si scopre un vizio del machiavellico Kubrick (cosa che del resto riguarda anche il caso dell’altro protagonista maschile, Danny, interpretato appunto da Danny Lloyd), che fu scelto al di là dell’eccezionale aderenza fisica al personaggio così come voluto da Kubrick, anche per la sua situazione delicata, fatta di fallimenti, casi giudiziari, abuso di alcool e droghe. Sono forse queste le connessioni che hanno maggiormente disturbato Stephen King, il quale ha dichiarato di non approvare l’appiattimento della figura del protagonista. Il re dell’horror, convinto sostenitore della netta contrapposizione tra bene e male, accusa Kubrick di aver condannato Jack Torrance senza appello, ad un personaggio folle, crudele e meschino, quando nel suo romanzo la caratterizzazione dei tre protagonisti era molto dettagliata e profonda. Già nel libro era insito un gioco di specchio. Un caso emblematico lo rappresentano le visioni di parole scritte alla rovescia, che per un bambino di 5 anni, quindi quasi sicuramente privo della capacità di leggere e scrivere, rappresentano un fatto quanto meno straordinario, perturbante appunto. Quindi, laddove Danny, nella sua quotidianità familiare leggeva scritto in rosso la parola DIVORZIO ecco che Stephen King contrappone la successiva orrenda trasformazione che questa scritta subisce nello scenario dell’Overlook, ovvero, OMICIDIO. Rispetto alla dinamica romanzo-trasposizione cinematografica, però, le cose sembrano essere più complesse di quanto gli stessi autori, curiosamente destinati a speculari iniziali, S. K., appunto, possano immaginare.
Scopriamo infatti, che se è vero che Stephen si rivela un fine psicologo ed efficace narratore dell’intima contrizione umana, Stanley affina i coltelli di una brillante, anzi luccicante, rappresentazione fantasmatica.
Una specularità ancora una volta, che riguarda, quindi, lo stesso rapporto che lo scrittore e il regista hanno avuto del soggetto. Per quanto l’intervento di Kubrick alla storia scritta da King sia consistente e per certi versi opposto, la differenza accentuata dall’autore è spessa quanto la sottile lastra di vetro che separa lo specchio dalla realtà. King mette l'accento su una coppia di persone "normali" che subiscono la presenza oscura incarnata dall'edificio stesso, costruito su un cimitero indiano e che oltretutto ha vissuto momenti di fasto e di turpitudine ai tempi del proibizionismo.
Per il regista di origini austriache la devastazione nell’animo del protagonista è la chiave d’accesso per scatenare i fantasmi della follia. Per lo scrittore americano il male, insito in un luogo di violata sacralità, indigena e differente, si impossessa di una famiglia già provata dal dramma quotidiano delle relazioni umane. Del resto lo stesso King sottolinea che Jack è un suo alter-ego (così come era per il gotico-freudiano Kubrick) e che ha delineato la sua figura sulla base di esperienze personali.
Ancora un curioso gioco di specchi nelle iniziali: impossibile non pensare all’adiacenza delle lettere J-K e S-T che invertono le iniziali del nome e cognome di autore e personaggio.
Alla fine però se King soffre per il male sublimato in scena da Kubrick, Kubrick si mostra insofferente per l'appiattimento della follia descritta da King. E viene così da pensare che mentre  il regista esorcizza il male con la pazzia, lo scrittore esorcizza la pazzia con il male.
Il male come fantasma di Kubrick.
La pazzia come fantasma di King.
Così vicini eppure lontanissimi. Come allo specchio, appunto!
 

I fantasmi del male

Se le presenze fantasmatiche sono sempre accompagnate dalla presenza degli specchi, che sottolinea l'inquietudine dell'altro che in realtà è lo stesso, siamo noi visti da una differente prospettiva.
In Kubrick tutto questo è quasi uno sfondo: è pur vero che ci sono presenze nell'edificio, ma sono i viventi ad agire, a uccidere. Il male, per Kubrick, non è esterno agli individui ma è qualcosa che è dentro di noi, per questo lo specchio risulta fondamentale nell'interpretazione kubrickiana della storia.
Importanti sono gli stravolgimenti operati da Kubrick rispetto agli stereotipi visivi dei film dell'orrore tradizionali. Più sopra si accennava alla presenza della luce, che sottolinea i momenti di maggiore tensione, diversamente da quanto ci potremmo aspettare in un horror "tradizionale". Altro elemento importante è la soggettiva. Non è mai una soggettiva che suggerisce una presenza "altra", maligna. È sempre una soggettiva da parte di personaggi "reali", quasi a sottolinearne la doppia natura: se il male è dentro di noi, possiamo anche essere noi le presenze inquietanti.
Oltretutto, per quanto si suggerisca il lieto fine, per Danny e Wendy, Kubrick elimina in maniera netta l’unica figura positiva esterna alla famiglia: Dick Hallorann, il cuoco afroamericano, che nel romanzo gioca un ruolo fondamentale e che di fatto salverà madre e figlio da Jack e dalla sua follia e/o possessione.
Il regista elimina il personaggio, dopo la sua folle corsa nel tentativo di salvare Danny, che lo richiama attraverso lo Shining, in maniera cinica, quasi ironica. Laddove il personaggio si ritrova a ricoprire un ruolo del tutto strumentale, un deus ex machina ad orologeria, che esplode dopo aver compiuto il suo dovere.
Tuttavia al di là di questa possessione interiore, sembra ingiusto far cedere il film, così come King vorrebbe, ad una languida  seduzione freudiana, che non può durare che il tempo di una lettura evidente ma immediata.
Anche i fantasmi della pellicola Shining hanno una loro consistenza, sono delle tracce, che in quanto tali hanno il potere di toccare l’animo umano solo se già profondamente toccato. Solo se già perso nel labirinto interiore, nel proprio sublimato giardino del male.
Il labirinto è un altro elemento chiave nella lettura kubrickiana dell'orrore. I protagonisti si trovano in un albergo, luogo accogliente quando è affollato, pieno di vita, ma ora ne sono gli unici abitanti. Gli spazi si moltiplicano a dismisura, sono fuori dalla portata del singolo. Il labirinto-albergo, luogo del perturbante, ha il suo doppio, guarda caso benefico, nel labirinto di siepi, che nel testo è rappresentato dagli animali di siepi, primo esempio di un male che vive, ed in questa differenza siepi animate/labirino di siepi è racchiusa la forza delle differenze tra libro e film. 

L’eco del Rimosso: «è sempre stato Lei»

È proprio il labirinto di siepi che consentirà a Danny di salvarsi e che imprigionerà per sempre Jack, ma il labirinto è anche una metafora dell'inconscio, e dei molteplici meccanismi di rimozione che vengono ad operarsi, espliciti o meno, nel testo filmico kubrickiano.
La rimozione dei fatti di sangue che sono avvenuti nell'albergo, che riemergono nella condizione di solitudine invernale del luogo, la rimozione da parte dei protagonisti di eventi poco chiari nella vita di Jack. Ultima, ma forse più importante, la rimozione storica nella coscienza collettiva statunitense del massacro degli indiani, simboleggiata dal cimitero indiano violato.
Il rimosso è il vero fantasma. Lo sdoppiamento eterico di un corpo che ha perso qualsiasi contatto col proprio sentire. Jack Torrance può farsi servire del buon Bourbon da un improbabile barista, e può gustarlo come ai vecchi tempi, ma non può sentire l’ansia del figlio, la richiesta della moglie. Ognuno dei personaggi è costretto a reiterare il dramma della rimozione, sublimare le ferite in una normalità che non li appartiene più, o che forse non li ha mai appartenuti.
Ed ecco che la rimozione arriva allo specchio. Il sentore si avverte nelle scena dei bagni con il servitore-ex custode, Jack lo guarda allo specchio per riconoscerlo definitivamente. Siamo alle prime scene delle rivelazione del dramma.
Jack Torrance, l’immagine di Jack vivrà per sempre all’Overlook imprigionato in una foto ricordo in bianco e nero di una festa lontana. Il sorriso folle e le braccia aperte ad accogliere, l’inizio di una non vita, o il ritorno ad un eterno rimosso?
Rimozione del fantasma, dell’uomo o del luogo?
O assorbimento, ritorno, al di là dello specchio?
O forse, soltanto, alla fine, rimozione del fantasma, per cui il nostro Grady ci deve ricordare di essere sempre stati noi?


Gianfranco Irlanda
Marina Nardone

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