martedì 16 aprile 2013

Antichrist


Antichrist di Lars von Trier, col, 104’ (versione cattolica), Dan, Ger, Ita, Sve, Pol, 2009.


Un film orribile: l’horror secondo Lars von Trier. Ovvero, l’orrore cosmico ‒ puro e semplice, calato nella relazione di genere. In verità, il film potrebbe forse essere letto sotto molti riguardi, da diversi punti di vista ma la lettura di genere non sembra essere troppo peregrina se è vero, come è vero, che tutto il film ruota attorno al rapporto tra marito e moglie, in una assurda escalation d’orrore e di violenza, fino alla tragica conclusione: il sacrificio della donna, strangolata dal marito. Orrore ‒ è bene sottolinearlo ‒ non terrore. Certo, il terrore abbonda, nel film, come la crudezza della violenza messa in scena.  Tanto più che si mescola alla delicata bellezza delle immagini, all'aria di Haendel che accarezza e modula l'amore e l'orrore, la poesia e la morte.


Il titolo del film dà, ovviamente, la chiave di lettura, che però è volutamente nascosta dal regista. Tant’è vero che egli non ha voluto spiegare chi (o cosa) fosse, nell’economia del film, l’Anticristo, lasciando agli spettatori la possibilità di lanciare qualunque ipotesi. Chi è l’Anticristo del film: la madre (Charlotte Gainsbourg)? Il padre (Willem Dafoe)? Il piccolo figlio, che muore all’inizio del film? Troppo scontata sarebbe una risposta di questo tipo. L’Anticristo è nella natura, la casa di Satana. È nella donna, che da sempre rappresenta l’adoratrice di Satana. È nel ritorno ad Eden, nel percorso di regressione dall’economia di salvezza (la terapia psicanalitica) ad un’economia della dissoluzione. Dissoluzione come rivelazione: apocalisse.
È misogino, dunque, questo film? Forse. È indubbiamente misogino nella misura in cui la donna è portatrice di una verità anticristiana. Altrimenti, è anticristiano, nella misura in cui la donna ha ragione di portare questa verità.
L’elemento più sconcertante di questo film è che si tratta a tutti gli effetti di un processo alle streghe, perpetrato nel tentativo di salvare una strega e che si conclude con il rogo della strega. Ciò a dire che il marito finisce con l’uccidere la moglie perché ha tentato fino alla fine di non riconoscerle lo statuto di strega e di assolverla dall’accusa di stregoneria. E perché finisce con l’ucciderla? Perché, di fatto, è sistematicamente contraddetto. Perché, di fatto, la moglie ha sistematicamente ragione. Perché, di fatto, si scontrano qui due paradigmi inconciliabili: o vale il mondo luminoso della razionalità maschile (patriarcale, cristiana); o vale quello oscuro e stregonesco femminile, l’antica sapienza matriarcale che pone da sempre le donne a custodia della morte ‒ della nascita e della morte.
Perché, allora, gli uomini uccidono le donne? Forse è proprio questa la domanda ultima alla quale il film conduce (la vera chiave di lettura sta in quel “ginocidio”, che è il titolo della tesi alla quale sta lavorando la protagonista). Forse è proprio questo che suscita tanto orrore, quando si guarda questo film: come se il ginocidio non fosse che il sacrificio originario su cui solo è possibile costruire il mondo luminoso e celeste del patriarcato. Come se la donna, costretta a fare da vittima sacrificale, fosse il vero fantasma, il vero represso dell’universalismo cristiano, che dunque necessita sempre, ritualmente, di reinscenare il matricidio/ginocidio originario.
Diego Rossi

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