sabato 12 febbraio 2011

Fantasmi a Roma


Fantasmi a Roma, di A. Pietrangeli, colore, 100 min., Italia 1961.

Fantasmi italiani.

Gassman, Mastroianni e Buazzelli in una scena del film
Santi (non proprio santi), artisti e donnaioli - ecco l'Italia. Non è difficile riconoscere in questa classica (?) commedia di Pietrangeli un divertito ed elegante affresco di quell'intreccio costitutivamente italiano tra clero e nobiltà con l'aggiunta dell'artista/borghese/intellettuale. Ma si tratta, in verità, della buona vecchia Italia, più che dell'Italia degli intrecci e delle macchinazioni politiche, di quell'Italia che arranca, con un pizzico di orgoglio e tanta autoironia, per sopravvivere al travolgente boom economico degli anni '60.
Paese che vai, fantasmi che trovi, verrebbe da pensare: qui siamo di fronte ad un tipo di fantasmi del tutto diverso da quelli di Shining, per quanto, in qualche modo, entrambi i film riprendono quel che accade in una "casa infestata". Ma c'è un oceano di distanza: qui non c'è proprio nulla che spaventi, non c'è nulla che inquieti, se non forse il timore per il futuro, per la perdita di quell'Italia calpestata dalle ruspe del progresso, messa a tacere dai fragori degli "anni ruggenti" e dall'americanizzazione. Certo, c'è una differenza nei toni ovvia: il film di Kubrick è un horror d'autore - Fantasmi a Roma è una commedia d'autore. Tuttavia la bonarietà di questi fantasmi nostrani non si esaurisce in una semplice scelta registica o in un diverso target.


A ben guardare, Pietrangeli non fa che trattare di fantasmi tipicamente italiani. Non ci sono, qui, cimiteri indiani dissacrati, né spiriti violentati che reclamano vendetta, non ci sono le tenebre di una terra indomita la cui storia è stata cancellata e non c'è nemmeno l'estraneità incolmabile della natura selvaggia e crudele. In Italia non esistono wraith e banshees, né Poltergeist in senso stretto. I nostri fantasmi, come la nostra terra, sono "addomesticati". Meglio: sono domestici. Tutt'altro che unheimlich, i fantasmi italiani sono fantasmi familiari, sono "di casa", convivono pacificamente con i vivi, in un rapporto spesso ambiguo, ma mai violento. Sono i Lari, la Bella 'Mbriana, il monaciello: spiriti domestici, appunto, le cui origini risalgono agli Etruschi, prima ancora che ai Latini. Sono gli spiriti degli avi, protettori della casa, Lares familiares che gli antichi Romani veneravano il 20 dicembre con i Sigillaria, e che vegliavano sul buon andamento della famiglia (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Lari_(divinit%C3%Ao)), proprio come i bonari fantasmi di Pietrangeli, che si preoccupano di spegnere la luce quando il Principe di Roviano (Don Annibale, interpretato da Eduardo De Filippo) si addormenta, o che riconducono, non senza qualche dispetto e furberia, Federico (Marcello Mastroianni) sulla retta via.
Copertina del DVD
Non dev'essere un caso se si utilizza la stessa parola per indicare lo spirito, il Geist fantasmatico, che convive con i vivi, e lo "spirito del popolo" tanto caro ai romantici. In fondo, di questo si tratta: siamo proprio in presenza di Volksgeister tutti italiani. E vien fatto di pensare che ci dev'essere un legame strettissimo tra un popolo e i suoi fantasmi: gli Italiani hanno sempre avuto un rapporto diretto con i loro morti, sin da quando i Latini li seppellivano in casa, e li hanno sempre trattati come presenti attivamente nella vita quotidiana - nei sogni, nel lotto, nello scricchiolio dei mobili di famiglia, nel culto dei morti. L'Italia ha avuto in fondo una continuità storica forse unica al mondo, pur nelle vicissitudini a volte drammatiche e pur nell'avvicendarsi e mescolarsi di popoli, così come unica al mondo è la fittissima urbanizzazione del suo territorio, ininterrotta sin dai tempi di Roma. E questa continuità si rispecchia nei suoi fantasmi molto casalinghi - e caserecci - e, tutto sommato, urbani; laddove altri popoli hanno dovuto fare i conti con un fantasmatico molto più represso e dunque violento: la Gran Bretagna viene subito in mente come il regno d'elezione dei fantasmi, con la Scozia e l'Irlanda teatri di sanguinosi scontri tra popoli e, soprattutto, tra un mondo celtico pagano e la cultura cattolica. Lo stesso accade in America, dove i fantasmi più violenti sono quelli di un popolo autoctono che fa tutt'uno con una terra mai accogliente con l'invasore - come una casa in cui ci si senta sempre ospiti non graditi.
Ecco allora che questi fantasmi tutti italiani descritti da Pietrangeli non sono che lo specchio tragicomico di quello che è lo spirito di un popolo diviso. Santi, artisti e donnaioli, appunto.
Il rifugio del Caparra nello sfacelo dell'abusivismo

I fantasmi della vecchia Italia.

Ma non si tratta solo di fantasmi italiani, nel senso di nostrani - si tratta in verità dei fantasmi di un'Italia che stava svanendo allora e che è stata (forse non del tutto) dimenticata oggi. Poiché è appunto in quegli anni - gli anni del boom economico e dell'abusivismo, del capitalismo d'assalto e delle prime tangenti - che il Volksgeist della vecchia Italia è stato messo più a dura prova; ed è oggi che, ritornando su quei luoghi, noi avvertiamo tutta la portata di quell'eco silenziosa che ci appare solo più come la voce di un fantasma.
E il fantasmatico assume qui diverse facce. Ovvero, si può dire, è a più livelli che possiamo penetrare in questo spaccato solo apparentemente macchiettistico. In primo luogo ci sono i fantasmi del cinema italiano, che in quegli anni viveva il suo momento di gloria. Eduardo, Mastroianni, Gassman - altrettanti fantasmi di un cinema (e prima ancora del teatro) che non ha mai più raggiunto quelle vette, se non con rare eccezioni. Ma è lo stesso film ad essere, in qualche modo, un fantasma nel panorama del cinema italiano, ignorato quasi, come lo stesso regista, definito "un'invisibile presenza" dagli autori del libro a lui dedicato (G. Morelli, G. Martini e G. Zappoli, Un'invisibile presenza. Il cinema di Antonio Pietrangeli, Il Castoro 1998).
"Foto di famiglia": Padre Bartolomeo, il piccolo Poldino, Donna Flora e Reginaldo
Ci sono poi gli espliciti fantasmi della storia: Reginaldo (Mastroianni), Donna Flora (Sandra Milo), Padre Bartolomeo (Tino Buazzelli), innanzitutto, e poi il Caparra (Gassman) e il giovane Poldino (Claudio Catania), il fratello maggiore, morto anzitempo, del vecchio Don Annibale (Eduardo). Sono tutti deceduti di morte violenta, anche se mai in maniera troppo avventurosa (Padre Bartolomeo avvelenato dalle polpette, Donna Flora suicida nel Tevere, Reginaldo scivolato da una finestra durante una tresca), legati alla casa in cui sono vissuti e alla famiglia alla quale appartengono. Don Annibale li conosce perfettamente: non solo ne conosce le storie, ma ne riconosce lo stile, il carattere, se li figura abbastanza puntualmente anche nell'aspetto. Si rivolge a loro - rivolgendosi alla casa - con affettuosa irritazione e li rimprovera con familiarità. Dal canto loro, i fantasmi lo scherniscono e gli fanno qualche bonario dispetto, di tanto in tanto, ma per lo più lo accudiscono, assicurandosi che ritrovi quegli oggetti che il vecchio principe crede siano stati loro a nascondergli e proteggendolo come possono. Lo seguono in trattoria, anche, e non esitano a condividere con lui il pranzo: godono per riflesso della vita del vivo. E ne sono complici, in particolare, quando si tratta di difendere la casa dagli attacchi dell'ingegner Telladi, che tenta in tutti i modi di farsela cedere per poterla abbattare e costruire al suo posto «il più grande supermercato d'Europa».
Padre Bartolomeo sveglia don Annibale
Sono i fantasmi della tradizione italiana che come una mamma procace non fa che tenere i figli attaccati alla sua gonna. Sono i fantasmi a saggiare il buon cibo, a salare il brodo quando è il caso, ad indignarsi per una ricetta sbagliata, oppure a punire i giovani corteggiatori che non danno pace alla passante. Sono fantasmi che si ergono a tutori e custodi delle buone maniere e in generale dell'italian way of life, sempre pronti a borbottare indignati verso i giovani e verso i vivi in generale che non sanno nemmeno più esser galanti, o che preferiscono la televisione alla bella moglie, ma che sono anche sempre gli stessi menzogneri adolescenti, pronti a giurare amore eterno pur di strappare un bacio, come ogni notte ricorda la sfortunata Donna Flora, suicida per amore. Addirittura, sono fantasmi che trasmettono, sussurrando all'orecchio, il sapere, come Poldino fa con la bambina di scuola, prima della classe senza mai studiare.
Ogni italiano conosce bene quel disagio, tutt'altro che unheimlich, dovuto alla famiglia e alla tradizione, che ti si attacca addosso come un fantasma e ti fa sentire sempre inadeguato, rallentato anche, appesantito e che ti rende incapace di staccarti dalla tua città, di viaggiare liberamente nel gran mondo, che ti costringe a voler sempre, sotto sotto, ritornare a casa, a desiderare i ravioli della nonna o il ragù della mamma. Sono i fantasmi che ti sussurrano in continuazione cosa fare e cosa evitare e ti condizionano, a volte ti opprimono. Sono le voci dei morti - "mi sembra di sentire mio padre..." - un intero coro di voci che ti dettano ricette, ti inducono a ordinare lo spezzatino, ti infilano a forza sapienza. Tu vuò fa' l'americano, ma si nato in Italy!: come Federico, ogni italiano, appena rimette piede in casa, si sente assalire dalla nostalgia e dai ricordi, da quel coro di voci fantasmatiche, e viene poco a poco risedotto dalla vecchia Mamma Italia. Una mamma sepolta dall'abusivismo edilizio e dall'americanizzazione, pure ancora viva, ancora capace di tener avvinti i propri figli - un fantasma, appunto, che non lascia libera la progenie.
Reginaldo in una delle sue "avventure" notturne
E veniamo così ad un ulteriore aspetto di questo fantasmatico: nei fantasmi di Pietrangeli vediamo riflesso il fantasma dell'Italia. I vecchi valori contro i nuovi, certo. Ma anche il fantasma di una guerra già persa in partenza: la vecchia Italia è ormai morta, già dal dopoguerra, travolta dalle miserie della guerra e dai fasti della ricostruzione. È lo stesso fantasma di Napoli Milionaria, in fondo, e non a caso è il grande Eduardo a farsi interprete dell'ultimo baluardo dei Roviano, ovvero estrema propaggine di quella frugale nobiltà - in primo luogo d'animo - ancorché decaduta, che caratterizza l'italianità che fu. Ben disposta a sporcarsi le mani pur di non buttare via una vecchia caldaia e a preferire una dignitosa povertà alla dissoluzione della propria storia. Destinata ad essere inesorabilmente travolta dal sopravanzare di un vuoto progresso, ma che non si lascia abbacinare dalla seduzione di facili guadagni. Napoli e Roma, sotto questo aspetto, sono unite a doppio filo nell'indomito - familistico - rifiuto di aprirsi alla modernizzazione, come aveva ben compreso Pasolini: «A un Nord che si protestantizza, assumendo forma puritane e capitalistiche, Pasolini contrappone il Sud, Napoli e le borgate romane. Tuttavia, negli ultimi anni deve constatare che anche queste plebi premoderne, pagane, riottose al sistema di valori della piccola borghesia, sono state catturate dal sistema del consumo» (M. Belpoliti, recensione a G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, B. Mondadori 2005).
Eileen fa il bagno sotto gli occhi di Reginaldo
E così, mentre il fantasma di un garibaldino viene sornionamente lasciato alla sua impotenza da Reginaldo che allontanandosi canticchia "Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba", come a salutare con una scrollata di spalle un'Italia morta prima ancora di nascere, intanto il gruppo dei Roviano combatte la sua battaglia contro le seduzioni di una vampirica Eileen (Belinda Lee), femme fatale americana che mantiene l'ingenuo Federico in attesa di godere dei milioni ricavati dalla vendita dell'antico immobile.
Ed è probabilmente tutto qui il nodo geisterphilosophich della matassa: Eileen versus Donna Flora - risvolto geistlich dell'americanizzazione che vampirizza la vecchia Italia. Perché Donna Flora è una fantasmatica Demetra tutta italiana, derisa e schernita dagli stessi compagni, un'oca stupida e romantica, molto mamma, molto florida ma assai poco sensuale. Dall'altro lato c'è Eileen, viva ma vampirica, al cui fascino nemmeno i fantasmi sanno resistere - quando il Caparra la vede va in visibilio: ecco la Venere perfetta! - e che però rivela in continuazione la natura ambigua del suo fascino, la faccia diabolica e interessata dei suoi sentimenti. Risulta così molto più complicata la dialettica tra le due figure femminili in opposizione - per quanto mai in diretta competizione. Sarà Donna Flora, per quanto a tutta prima poco apprezzata, a posare per il Caparra, mentre la seducente Eileen, incapace di comprendere il valore di ciò che la circonda in quella vecchia casa fatiscente, si macchierà costantemente di ridicolo, perdendo tutta la sua femminilità, quando si "veste" dei panni cardinalizi, ad esempio, in cui non vede altro che un costume sexy, oppure quando distruggerà l'antico seggio papale sedendosi sgraziatamente - immagine perfetta di quella sgraziata seduzione dello sperpero consumistico.
Donna Flora posa per la Venere del Caparra

«Sono più vivi i morti dei viventi».

Sgarbi fece questa affermazione durante la seconda puntata de Il più grande, «il più grande pasticcio» della TV italiana (Cfr. Lord Lucas, Il più grande. La seconda puntata, "tvblog.it", 27/1/2010), in onda lo scorso anno su RaiDue. Era una provocazione, ovviamente, e un'accusa mossa al programma. Ma, presa alla lettera, questa sentenza introdurrebbe perfettamente alla Geisterphilosophie e tanto più nell'interpellazione dei fantasmi romani di Pietrangeli.
Tutta la storia è infatti sviluppata, in buona sostanza, attraverso lo sguardo dei fantasmi, distinti nel film, oltre che per l'abbigliamento "fuori moda" e un certo pallore, grazie alla geniale trovata di un sottile velo azzurro, che li ammanta con eleganza di un alone appena accennato di "soprannaturale". Il confine tra vivi e morti è così praticamente annullato: i fantasmi possono tranquillamente toccare i vivi, sedercisi accanto, assaggiare i cibi e l'unico limite è dato da un tuono irato che ammonisce i fantasmi a non andare oltre, più come forma di punizione che come invalicabilità di un confine.
Eduardo nei panni del principe di Roviano
C'è in fondo una totale omogeneità tra i due mondi, sottolineata dalla reale identità tra il vivo Federico e il morto Reginaldo (entrambi interpretati da Mastroianni) il quale, evidentemente, da vero don Giovanni, ha seminato ovunque il suo corredo genetico (anche Gino, il rozzo soldato che appare verso la fine del film, è interpretato da un Mastroianni lentigginoso, evidente discendente di un ramo bastardo della famiglia). Il personaggio di Regina, poi, non fa che aumentare l'interscambiabilità tra i due mondi: vero e proprio fantasma vivente, sopravvissuta a sé stessa, Regina è una clochard che vaga per le strade di Roma, imprecando contro tutti - fuorché il buon Principe, Don Annibale Roviano, «l'unico» vero signore che è rimasto in circolazione - e racimolando monete in attesa che sia reintagrata su un presunto trono. È l'altra faccia dell'Italia bistrattata e consunta, straniera sul proprio suolo, pallido ricordo di una gloriosa Italia assisa sul trono della storia. (Non a caso Don Annibale ricambia silenziosamente l'affetto di Regina, e la ricorda bellissima e superba.)
E questa continuità tra vivi e morti diventa l'elemento determinante del film: anzi sono i vivi, a ben guardare, a condurre una quotidianità ritualistica e a vivere in una reiterazione di gesti, come incatenati ad un'atemporalità che li rende impotenti. Si tratta di resistere agli attacchi del nuovo, persistere in una sopravvivenza che può essere garantita solo da un ostinato attaccamento ai luoghi. Altrimenti è l'oblio. I morti sono coloro che si attivano, coloro che soli possono ancora fare storia: il dipinto del Caparra, che in definitiva riesce ad ottenere ragione del supermercato, è forse l'idea più brillante del film. (Tra parentesi, Niccolò Grosso detto il Caparra fu un artista fiorentino del Quattrocento, maestro ferraio, che ottenne fama, oltre che per l'eccellente perizia dei suoi lavori, grazie anche ad un caratterino molto simile a quello del personaggio interpretato da Gassman: nelle Vite, il Vasari racconta che rispose per le rime a Lorenzo de' Medici, costringendolo ad attendere che finisse prima gli altri lavori commissionatigli, dal momento che «tanto stimava i danari loro quanto quei di Lorenzo».) I morti sono i soli che riescono a creare qualcosa di nuovo che abbia davvero valore: in una sola notte il Caparra crea un affresco che ha tutta la ricchezza dei secoli e che per i vivi costituisce quasi solo più un gravame, un seccante ostacolo ai propri disegni di arricchimento.
Ed ecco il vero fantasma che emerge dalla testimonianza silente di questi fantasmi: la voce suadente e funesta delle fameliche sirene di una «modernizzazione senza sviluppo», la distruzione interessata di un intero patrimonio culturale e artistico - dell'intera storia italiana - in cambio di quelli che sono in fondo pochi spiccioli, è il coro di un Inno alla gioia in versione Clockwork Orange che invita alla dilapidazione dei "valori", dei "beni di famiglia", dei "risparmi" da portare in CheBanca! (Cfr. Lamarque, Spot CheBanca! (2011), 8/2/2011) - ultima tappa di quella vampirizzazione dell'Italia cominciata in quel di Milano negli '70. È il fantasma italianissimo di un'economia "sganciata dal sociale" e divenuta sempre più antisociale. Lo stesso fantasma di quell'Aquila devastata dal terremoto e necrofagizzata da costruttori di palazzine populistiche e ipermercati alienanti.
Un fantasma ancora, tutto sommato, domestico e urbano, molto italiano - ma che frattanto, soffocato sotto la monnezza e il percolato, schiacciato dal cemento, sfruttato da avvoltoi e sciacalli, ha assunto il volto di uno spettro e a poco a poco rischia di diventare il fantasma minaccioso di un cimitero indiano. Rispetto al '61, infatti, morto il principe di Roviano, è morto anche Federico. E nel frattempo sono morti tutti: anche Monicelli se ne è andato. Tutti i vivi sono passati di là, lasciando l'Italia in balia dei morti viventi e di immensi - sempre più immensi - garage.

Diego Rossi
Il cipiglio del Caparra

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